34 anni dopo...
>> domenica 23 novembre 2014
Il 23 novembre non è una data qualunque, almeno per un irpino come me. Il 23 novembre, infatti, è il giorno in cui si celebra la ricorrenza funesta del terremoto del 1980, che viene citato come o’ terramoto. Il terremoto, appunto, non un evento tra i tanti. Alle 19.34 si ripete ogni anno, quasi per esorcizzare quel terrore, il ricordo del minuto e mezzo che è stato il più lungo della storia di una provincia.
Per chi non era ancora nato, il terremoto è un racconto che si tramanda di generazione in generazione, iscrivendosi come un trauma nella memoria collettiva. Per molti il sisma del 1980 ha corrisposto a un’infanzia nei prefabbricati, con l’idea che quella fosse la normalità. Proprio così, in molti in età preadolescenziale davano per scontato che la vita potesse essere davvero quella. Sicuramente è stata un’esperienza che ha forgiato il carattere tosto di molti irpini, ma è un’ingiustizia che indescrivibile.
Conservo un limpido ricordo di amici cresciuti (mi si perdoni il dialetto) abbascio i prefabbricati, traducibile con “laggiù, nelle aree adibite ai prefabbricati”, in attesa di un alloggio vero che tardava ad arrivare. Del resto ero troppo piccolo per sapere che la commissione parlamentare, presieduta da Oscar Luigi Scalfaro (che di lì a poco sarebbe andato al Quirinale), nel 1990 aveva appurato che oltre 50 miliardi di lire non erano serviti quasi a nulla. E non sapevo che, a 10 anni dal terremoto, 28.572 persone vivevano ancora in roulotte e in containers e 4.405 negli alberghi.
C’è un altro incubo che aleggia nella memoria: “l’aria da terremoto”. Una sorta di leggenda secondo cui c’è un caldo umido e anomalo nel giorno di una forte scossa sismica. Quel 23 novembre, infatti, era una domenica caratterizzata da condizioni atmosferiche atipiche, con un caldo ricordato da tutti. E, nonostante la scienza abbia sempre smentito questa tesi, ogni irpino – anche il più razionale – si irrigidisce di fronte a giornate autunnali o invernali caratterizzate da temperature anomale. A poco serve la constatazione che a l’Aquila il sisma del 2009 è arrivato quando c’era il freddo. È una paura ancestrale.
Il terremoto del 1980, come si poteva ben capire dalla rivelazione della Commissione Scalfaro, è anche stato un evento ghiotto per molti disonesti (per favore non chiamiamoli “furbi”). La vox populi racconta di persone che hanno messo in piedi la propria fortuna personale con la ricostruzione. Ma l’inchiesta “Mani sul Terremoto”, un filone di Mani Pulite, si è chiusa con la prescrizione (un tema sempre attuale) per tutti. Così da irpino le risate di alcuni personaggi, carpite dalle intercettazioni, dopo il terremoto dell’Aquila, hanno fatto ancora più male. Questa, peraltro, mi sembra una piccola istantanea di un’Italia in grado di sviluppare ricchezza – si fa per dire – dal dolore. Mostrando raramente di saperlo fare nella normalità.
Il terremoto dell’Irpinia, 34 anni dopo, è il racconto di un meridione lasciato sullo sfondo e di cui oggi ci si ricorda all’ennesimo rapporto Svimez che parla di «desertificazione». Un terremoto perenne, peggiore del terremoto che «sembra non finire mai» come scrisse Daniele Martini su “Panorama”.
Perché quel dramma, oltre a uccidere 2.914 persone, ha sbattuto in faccia a tutti, con inaudita violenza, la differenza tra Nord e Sud. Un gap che nemmeno il “boom economico” aveva ridotto: anzi con i “favolosi anni Ottanta” è aumentato. Tranne per chi ha saputo surfare sull’onda degli affari e della politica.
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