Caso Yara... Siamo sicuri di quello che ci dicono?
>> giovedì 19 giugno 2014
Scienze forensi – Validità della prova del DNA (Autore: Edoardo Mori)
La scienza ha fatto conquiste da fantascienza. La microscopia non incontra più limiti dimensionali, all’analisi chimica non sfugge più nessuna molecola, la genetica si appresta a riprodurre esseri viventi da un loro frammento, la medicina riesce a seguire il corso del pensiero nel cervello.
Parrebbe che nessun ostacolo più si frapponga ad indagini criminali a cui più nulla sfugge; ma purtroppo anche la scienza ha un punto debole e sono gli uomini che la applicano. Quanto più le macchine diventano sofisticate, quanto più basta premere un bottone per ottenere un risultato, tanto più si tende a mettere davanti alla macchina una “scimmia addomesticata” che sa solo premere il bottone.
In Italia mancano strutture adeguate in grado utilizzare i nuovi metodi con l’alto livello scientifico richiesto dalle nuove tecnologie, destinate a raffinati laboratori universitari più che a laboratori di polizia, a professori universitari con esperienza piuttosto che a generali o questori, pur se occasionalmente laureati in scienze. Peggio ancora: mancano strutture indipendenti che non facciano sorgere il dubbio che esse lavorino più per confermare le tesi degli investigatori che per trovare la verità.
In Inghilterra vi è il Forensic Science Service considerato di assoluta eccellenza e che assiste laboratori di oltre 60 paesi e dispone della più ampia banca dati del mondo sulle scienze forensi con oltre 70.000 documenti. Pur essendo lo FSS indipendente dalla polizia, vi sono poi istituzioni private ad alto livello, come lo LLG con oltre 1000 dipendenti, in grado di assicurare consulenze qualificatissime.
Non che in Inghilterra non vi siano errori peritali, ma si fa di tutto per ridurli al minimo e le perizie non vengono mai eseguite sotto la spinta di salvar la faccia di un pubblico ministero o di un corpo di polizia ed è molto frequente la revisione di processi quando si scopre che una metodologia impiegata da un laboratorio non era adeguata al caso.
In paragone la situazione italiana è a dir poco penosa e si ha troppo spesso l’impressione di essere nelle mani di apprendisti stregoni.
Quale elevato livello di consapevolezza scientifica sia richiesto, lo ha dimostrato il problema dei residui di sparo, cioè delle particelle di polvere da sparo che rimangono sulle mani dello sparatore e che dovrebbero dimostrare che egli è lo sparatore. Sono oltre 70 anni, a partire dalla tecnica del c.d. guanto di paraffina, che si studiano nuovi sistemi per individuare i residui di sparo e che ogni nuovo sistema si rivela fallace. Attualmente, pur non essendovi più limiti tecnici all’indagine, si è visto che in moltissimi casi è impossibile stabilire la provenienza del residui e che vi è un tale inquinamento da corpuscoli identici o analoghi a residui di sparo che è da scriteriati affermare con certezza che ciò che si è trovato sulla mano o sugli abiti del sospetto è un residuo di sparo e, nel caso che lo fosse, che la sua presenza è idonea a dimostrare che il sospetto ha sparato. Si consideri che un locale in cui si è sparato è altamente inquinato da residui di sparo i quali si ritrovano su ogni persona che vi entri; che chiunque maneggia una pistola assume e ridistribuisce residui di sparo; che ogni ufficio con poliziotti è inquinato da residui di sparo. Un tempo si trovavano sulle mani residui di sparo con facilità, anche dopo giorni dallo sparo; attualmente si considera inutile e pericoloso ricercarli dopo tre o quattro ore! Quindi negli USA lo FBI ritiene di poter dare una risposta tranquillizzante solo in un terzo dei casi esaminati. Un recente libro (2008) di John D. Wright, Der Täter auf dem Spur, noto esperto di scienze forensi, neppure ne parla più!
Eppure in Italia i nostri laboratori erano giunti a trovare elementi certi di colpevolezza nel 90% dei casi il che significa che nel 60% dei casi le conclusioni della perizia erano, quantomeno, avventate o ciecamente dalla parte dell’accusa!
Un nostro perito, tra i migliori, mi riferisce che fra le numerose perizie del laboratorio dei Carabinieri da lui esaminate negli ultimo 12 mesi, non ne ha trovata una che reggesse ad un approfondito vaglio scientifico (non che fossero necessariamente errate, ma non dimostravano con rigore scientifico quanto affermato; un buon perito di parte avrebbe potuto dimostrare che ogni affermazione poteva essere legittimamente messa in dubbio).
Ciò significa che in passato migliaia e migliaia di processi, in tutto il mondo, sono stati definiti sulla base di perizie balistiche prive di ogni valore scientifico, che non dimostravano assolutamente nulla, buone solo a tranquillizzare la coscienza dei giudici.
Si è avuto un esempio eclatante di questa situazione nel caso Marta Russo in cui i laboratori della polizia avevano scambiato una particella di ferodo di freni, ampiamente diffuse nell’aria di Roma, per un residuo di sparo e su di esso avevano costruito tutta la tesi accusatoria. Per non parlare della traiettoria del proiettile ricostruita sulla base di un solo punto e che, guarda caso, passava proprio per dove era stato trovato il residuo fasullo. Alla fine il processo è stato deciso sulla base di una discussa testimonianza, proprio come 100 anni orsono.
Altro episodio penoso della nostra storia giudiziaria si è avuto nel caso “unabomber” in cui gli investigatori avevano repertato un paio di forbici in casa di un sospettato ed un lamierino sul luogo del fatto e per mesi e mesi non hanno mai pensato di controllare se per caso il lamierino non fosse stato tagliato con quelle forbici. Se mi chiedete perché, la risposta è semplice: perché né gli investigatori né i giudici sapevano che uno strumento che lavora su di un metallo vi lascia delle tracce che consentono di identificare lo strumento. Sono i cosiddetti toolmarks, già noti alcuni secoli fa! E quando alla fine hanno preso in mano i reperti, hanno talmente pasticciato da pregiudicarne il possibile valore probatorio futuro.
Ora gli apprendisti stregoni hanno scoperto il DNA e credono di poter risolvere facilmente ogni caso con esso. Sembra che ormai investigatori e giudici abbiano rinunziato ad usare logica ed intelligenza e pensino di avere in mano uno strumento perfetto che li esime dal pensare.
Purtroppo il DNA è uno strumento eccezionale di indagine, ma soggetto anch’esso ad errori i quali possono essere evitati (salvo un margine statisticamente inevitabile del 1-2%) solo se si seguono metodiche con regole ferree, a partire dal primo istante delle indagini; se gli investigatori scientifici arrivano dopo altri, si è già creato un inquinamento della scena del crimine, spesso non più controllabile.
È appena il caso di ricordare, a questo proposito, il caso di Cogne in cui si sono susseguiti oltre venti sopralluoghi nella casa del delitto e dopo che per la casa si erano aggirati branchi di persone; meno male che in quel caso la prova del DNA non serviva.
La situazione è la stessa che in passato si è verificata per le impronte digitali e per i residui di sparo. Gli inconsulti e ascientifici entusiasmi iniziali hanno dovuto calar le ali di fronte alla constatazione che permaneva un margine di errore fonte di innumerevoli errori giuridiziari.
Proprio per le impronte digitali il prof. Itiel Dror dell’Università di Southampton ha fatto un bello scherzo a sei esperti di vari paesi (compresi Inghilterra ed USA) ed ha sottoposto loro otto diverse impronte latenti rilevate sul luogo di delitti e sei impronte prelevate a otto diversi sospetti, rispetto alle quali i periti, senza che lo ricordassero, si erano già espressi. In sei casi su 48 i periti diedero una risposta diversa da quella su cui avevano già giurato in tribunale e solo due esperti non deviarono in nessun caso dalle affermazioni già fatte! Nel 2002 negli Usa si sono accertati quasi 2000 casi di identificazioni erronee. Se questo è il margine di errore su di un accertamento considerato fra i più consolidati ed affidabile, da lasciar fare a qualunque tecnico in grado di ingrandire una foto, su cui molti enti, come lo stesso U.S. Department of Justice, giurano che il margine di errore è eguale a zero, si immagini quale è il margine di errore per i residui di sparo e il DNA che invece richiedono incontestabilmente vaste capacità nell’operare scientificamente.
Il DNA è in grado di far individuare una persona da infinitesime parti dei suoi tessuti corporei. Una traccia di liquido organico (saliva, sperma, sangue, orina, sudore), una squama di forfora, un pelo, vengono trattati con l’enzima polimerase in modo che frammenti del DNA si ricompongano nella dovuta sequenza; ripetendo la procedura molte volte, si riproduce il fenomeno ottenendo un numero sempre maggiore di campioni di DNA, in modo esponenziale; questo procedimento viene detto “reazione a catena della polimerase, PCR, ed è in grado in tre ore di ricreare 100 miliardi di molecole di DNA identiche; con un nuovo metodo dell’Università del Michingan questo procedimento si conclude in soli 40 minuti. Però il risultato non è un codice numerico come il codice fiscale, idoneo, se sufficientemente lungo, a distinguere ogni cittadino, ma solamente l’immagine di una elettroforesi che presente un certo schema; se almeno 13 punti di questo schema coincidono con lo schema estratto dal campione di DNA da confrontare, si afferma che vi è coincidenza con una probabilità di un errore su di un miliardo. Nella pratica però si è visto, facendo una ricerca in un database del DNA dell’Arizona con 65.000 campioni, che con nove punti si trovavano bene 122 corrispondenze, con dieci punti 20, con 11 e con 12 punti una corrispondenza; altro che un errore su un miliardo!
Il problema del DNA come prova nel processo penale è però ben più complicato e non si limita solo al problema di ricollegare un certo DNA ad un dato individuo. Ogni persona disperde in continuazione una tale quantità di materiale organico proprio (la polvere di una casa è costituita per la maggior parte di cellule umane) o altrui (catturato con gli abiti e le scarpe) che è impresa improba distinguere il DNA utile da quello estraneo ed evitare che il DNA utile venga da esso contaminato. In Australia è successo che in ben tre casi di omicidio si erano trovate le stesse tracce di DNA; erano convinti di aver trovato un serial killer, fino a che non hanno scoperto che il DNA era quello dell’esperto della polizia che faceva le analisi senza le debite cautele.
Il problema è così complesso ed importante che le metodiche e i protocolli di ricerca e prelievo dei reperti, della loro conservazione, della loro manipolazione, dovrebbero essere fissate normativamente, così da poter garantire la genuinità della prova. Ogni azione, dalla ricerca all’analisi, è in sostanza una operazione irripetibile, secondo la distinzione del codice di procedura penale e il fatto di ignorare questo dato elementare comporta che la prova con il DNA diventi aleatoria.
Non parlo ovviamente dei casi in cui vi è da identificare una quantità rilevante di materia organica (sangue, sperma) in cui la contaminazione viene facilmente rilevata, ma di tutti quei casi in cui la traccia utile è minima. Tra l’altro quanto più la traccia è modesta, tanto più cresce la difficoltà di separare due DNA che si trovino ad essere esaminati assieme.
Vediamo un esempio pratico di come dovrebbero funzionare le cose. Si abbia una stanza in cui è avvenuto un omicidio. In essa vi sono tracce di DNA del morto, dell’assassino (a meno che non fosse ben imballato in una tuta di plastica!) e di tutti coloro che hanno frequentato la stanza prima dell’omicidio, senza limiti di tempo, ovviamente in relazione al tipo di pulizia in uso. Chi scopre l’omicidio porta il suo DNA nella stanza e altrettanto fanno tutti coloro che lo seguono. In genere l’esperienza ci dice che prima dell’arrivo della squadra scientifica, entreranno nella stanza almeno una decina di persone che spargono il proprio DNA e portano in giro con le scarpe quello che già vi trovano. In Italia manca un preciso protocollo di intervento e sopralluogo da parte della polizia il quale consenta poi al giudice di controllare che non vi siano stati comportamenti scorretti.
Quando arriva la squadra scientifica, con il minor numero di persone possibile, questa deve essere rivestita con apposita tuta, perfettamente pulita, con cuffia e con guanti e che copra anche le scarpe; non guasta una mascherina davanti alla bocca perché uno starnuto o uno spruzzo di saliva possono inquinare l’ambiente. Già in questa fase bisogna protocollare i nomi di tutti coloro che sono intervenuti ed intervengono perché poi si possa escludere il loro DNA dalle ricerche.
Inizia quindi la ricerca dei reperti (intendesi con tale termine cose più o meno grandi che possono essere il supporto di parti anche infinitesimali di DNA) con vari metodi (vista, aspirapolvere, nastro adesivo, luce fluorescente, laser, ecc.). Nel momento in cui un reperto deve essere prelevato, non si possono usare i guanti che si indossano perché già inquinati, ma si usano nuovi guanti oppure un attrezzo ben pulito. E questo va usato una sola volta oppure accuratamente pulito dopo ogni uso perché altrimenti si corre il rischio di trasportare DNA del primo reperto sul reperto successivo. Nell’ambiente si deve procedere senza calpestare le zone non ancora controllate perché con i piedi si possono trasportare tracce da un punto all’altro. Ovviamente ogni prelievo va prima accuratamente fotografato.
Il reperto trovato deve essere immediatamente sistemato in un contenitore stagno portato sul luogo ben chiuso e perfettamente pulito e il contenitore va immediatamente sigillato e munito di scritte di identificazione. Da quel momento il contenitore può essere aperto solo dal perito incaricato dal giudice e che deve operare anch’egli in modo da evitare nel modo più assoluto la contaminazione. Egli inoltre deve protocollare ogni apertura e richiusura del contenitore con indicazione delle cautele adottate e delle persone partecipanti.
In genere, se non si filma tutto, è necessario procedere alla redazione di un verbale in cui siano descritte tutte le operazioni compiute, nella loro sequenza temporale, con indicazione di tutte le persone intervenute e di ciò che hanno fatto. È sempre necessario che l’investigatore possa dimostrare di aver fatto tutto secondo le regole perché se solo al dibattimento, a seguito di contestazioni, dichiara di averle seguite, vi è il fondato sospetto che lo faccia solo per coprire suoi errori.
Se non si seguono queste regole, la prova del DNA può diventare priva di ogni valore processuale perché non prova più nulla. Come per le impronte digitali, una traccia di DNA dimostra che prima di una certa data una persona è venuta in contatto con un oggetto o un ambiente, ma non lo ricollega direttamente al delitto. Il significato probatorio può derivare dal punto di rinvenimento, ma allora l’investigatore deve essere in grado di provare che la traccia ha potuto trovarsi in quel punto solo in relazione al delitto e non perché, ad esempio, ce l’ha trasportata un maldestro operatore.
Un esempio eclatante dei problemi che presenta l’elevatissimo pericolo di inquinamento del reperto lo si è avuto il Germania proprio il 29 marzo 2009. Da due anni la polizia tedesca rinveniva sulla scena di gravi delitti, tra cui anche l’omicidio di un poliziotto, lo stesso DNA di una persona di sesso femminile; alla fine si aveva il quadro di una specie di serial femminile detto "Phantom vom Heilbronn" che girava per la Germania commettendo delitti gravi (ovviamente la ricerca del DNA viene fatta in casi di un certo rilievo). Già le erano stati attribuiti 40 casi con la conseguenza che non era stata svolta alcuna altra indagine per accertarne gli autori, perché la prova del DNA veniva considerata sufficiente. Poi per caso si è fatta la penosa scoperta che i bastoncini di ovatta usati per il prelievo del DNA e forniti da un’unica ditta, erano stati tutti contaminati del DNA di una operaia della ditta!
Viene quindi da rabbrividire quando si vede un filmato (come è accaduto per il processo di Perugia), prodotto a dimostrazione delle cautele usate, in cui i poliziotti raccolgono un reperto decisivo con i guanti! I guanti, dopo due secondi che si usano per ricercare qualche cosa sono già inquinati, e un reperto importante NON va toccato con i guanti, ma va raccolto con una pinzetta da usare una sola volta.
Il problema dell’inquinamento da DNA non è ancora stato risolto e quindi la cauteala non sarà mai troppa.
Voi pensate che in genere le indagini vengano svolte con questa capacità e accuratezza, come richiesto dalle corti degli Stati Uniti? Che gli operanti siano in grado di provare tutto ciò che davvero hanno fatto? Io personalmente, e per la mia esperienza di 25 anni di giudice istruttore, ho i miei fondati dubbi!
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