Un regalo alle banche?
>> giovedì 30 gennaio 2014
La rivalutazione delle quote di Bankitalia non è un’operazione priva di costi per la finanza pubblica. Essa comporta la distribuzione di elevati dividendi e quindi la rinuncia ad entrate rilevanti nei prossimi anni. E anche riguardo all’obiettivo di rafforzare per questa via il sistema bancario si possono avanzare perplessità
Il decreto sulla rivalutazione delle quote di Bankitalia da 156 mila euro a 7,5 miliardi ha suscitato critiche tra gli addetti ai lavori, ma il carattere tecnico del provvedimento ha impedito che la questione avesse presso l’opinione pubblica l’attenzione che merita. Una certa preoccupazione ha destato la prospettiva di un assetto proprietario che coinvolga soci stranieri, cioè la questione dell’italianità di Bankitalia. È tuttavia importante capire i riflessi del provvedimento sulla finanza pubblica e i suoi possibili effetti redistributivi.
Le banche interessate sembrano aver accettato di buon grado il pagamento di un’imposta sostitutiva del 12% sull’incremento del valore della loro partecipazione. Il motivo è ovvio: l’aumento del valore del patrimonio non è un puro fatto nominale o contabile. L’operazione si configura come un vero e proprio trasferimento di ricchezza dallo Stato alle banche socie, un trasferimento che vale 7,5 miliardi (meno il 12% di imposta). Per capire il punto occorre considerare che siamo di fronte a qualcosa di diverso da una normale rivalutazione di una partecipazione iscritta nel bilancio di una società. Nel caso di una partecipazione in una società privata, il valore di mercato delle quote, che riflette la redditività attesa della società partecipata, può differire dal valore iscritto nel bilancio della partecipante, ed è buona norma allineare periodicamente il secondo al primo; il riallineamento serve a rendere il bilancio coerente con l’effettivo valore patrimoniale.
Diversamente da una generica partecipazione, nel caso di Bankitalia l’esercizio dei diritti di proprietà per i soci è molto limitato: l’attività della banca è regolata dalla legge, ed è di fatto sottratta alla disponibilità dei soci. In effetti, al di là del prestigio derivante dal detenere una quota della banca centrale, le quote di Bankitalia danno a chi le possiede il mero diritto a percepire i dividendi nella misura fissata dallo statuto. Finora, i dividendi erano stati estremamente contenuti (lo statuto fissava un massimale pari al 10% del capitale sociale, cioè circa 15 mila euro), anche se negli ultimi anni erano stati distribuiti dividendi straordinari fino a 70 milioni di euro.
È chiaro dunque che un aumento del valore delle quote a 7,5 miliardi si giustifica solo in quanto aumentano in modo corrispondente i dividendi che i soci si aspettano di percepire in futuro; non a caso il decreto del governo stabilisce che i dividendi possano arrivare al 6% del nuovo valore; aumenta cioè il massimale a 450 milioni. Qui c’è un passaggio delicato: la norma statutaria stabilisce che i dividendi possano arrivare al 6%, non dice che debbano farlo necessariamente. Tuttavia, proprio per il motivo che dicevamo, proprio per il necessario legame tra dividendi attesi e valore di mercato, un aumento dei dividendi di questo ordine di grandezza (se non sarà il 6% sarà il 5%) è necessario perché il mercato “convalidi” il valore fissato di 7,5 miliardi.
Proviamo ad immaginare cosa accadrebbe in caso contrario, se cioè alla rivalutazione nominale non corrispondesse un aumento dei dividendi attesi. Le banche socie che volessero vendere parte delle loro quote (alcune banche dovranno farlo quasi subito per scendere sotto il 5%), e che hanno iscritto a bilancio una plusvalenza all’atto della rivalutazione, otterrebbero un prezzo considerevolmente più basso del valore teorico, soffrendo di una minusvalenza patrimoniale. È molto improbabile che si consenta un esito del genere. Ma c’è di più: Bankitalia si è impegnata al riacquisto delle proprie azioni nel caso in cui le banche non dovessero trovare acquirenti sul mercato. A quale prezzo avverrà il riacquisto? Non è immaginabile che dopo aver stimato il valore in 7,5 miliardi, Bankitalia acquisti le azioni ad un prezzo inferiore. Dunque, le banche che si troveranno a ridurre la loro partecipazione riceveranno da Bankitalia un pagamento corrispondente al valore teorico fissato, anche se tale valore è superiore alla valutazione di mercato.
Se è vero quanto abbiamo detto, se la rivalutazione delle quote contiene una implicita promessa di distribuire dividendi in misura pari (o comunque di poco inferiore) al 6% del nuovo valore del capitale, siamo di fronte a qualcosa di più di un mero adeguamento contabile. L’operazione ha effetti concreti sui flussi reddituali tra Bankitalia e i suoi soci. Le banche ricevono un bel regalo di Natale, e a pagare sarà il bilancio dello Stato, cioè i contribuenti, visto che, sempre da statuto, gli utili di Bankitalia non distribuiti ai soci vengono versati allo Stato. Se il regalo da 7,5 miliardi non incide immediatamente sul bilancio pubblico, inciderà l’impegno a corrispondere ai soci da qui in avanti dividendi pari al 6% di tale valore, ovvero 450 milioni. In cambio, le banche pagano un’imposta sostitutiva del 12% sulla plusvalenza. Insomma: nelle casse dello stato entrano immediatamente 900 milioni, a fronte di una minore entrata 450 miloni annui a partire dal prossimo anno. Siamo sicuri che ne valga la pena?
Chi ci ha seguito fin qui potrebbe a questo punto avanzare un’altra obiezione, dettata dal realismo. È vero che stiamo facendo un regalo alle banche, ma tutto ciò è necessario per rafforzare il nostro sistema del credito, indebolito dalla crisi. In altri paesi i salvataggi del sistema bancario sono costati in fondo molto di più. A questo proposito, va tuttavia tenuto presente che il vantaggio dell’operazione è per le sole banche che attualmente detengono la proprietà delle azioni, in proporzione alle rispettive quote. Queste sono distribuite in modo molto diseguale, visto che Intesa San Paolo detiene da solo il 42,4% e Unicredit il 22,1%. È vero che il decreto impone un limite del 5% e quindi una maggiore dispersione dell’azionariato, ma questo non inciderà sulla distribuzione dei benefici patrimoniali di cui si è detto. L’aspettativa dei maggiori dividendi futuri viene capitalizzata nel valore delle quote immediatamente, nel momento in cui il decreto diventa efficace, e quindi la fotografia dell’attuale assetto societario ci dà anche la distribuzione dei relativi benefici. Insomma, se l’obiettivo era quello di usare risorse pubbliche per rafforzare il nostro sistema creditizio, sarebbe stata preferibile una soluzione diversa, che garantisse benefici diffusi e non così sproporzionatamente concentrati a vantaggio di pochi soggetti.
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