Ieri era il ventesimo anniversario della
morte di Giovanni Falcone, di sua moglie e di 3 dei 7 agenti che lo
scortavano sull'autostrada verso Palermo, all'altezza dello svincolo
per Capaci... Ho seguito come tutti le celebrazioni, le dirette
televisive, i servizi dei telegiornali; ho letto sui giornali la
retorica dei commentatori, le analisi più o meno approfondite di
molti magistrati, gli interventi di praticamente tutti gli esponenti
politici (devo dire con l'assordante ed inedito silenzio dei leghisti
che, evidentemente, o non sono molto interessati da quello che
considerano politica estera o, come dice la procura di Reggio
Calabria, preferiscono la mafia calabrese a quella siciliana... chi
sa).
Quello che però mi ha fatto molto
riflettere è la palese distanza tra le analisi dei commentatori e la
mia esperienza personale; innanzitutto perché, questa mia
esperienza, combacia invece moltissimo con le analisi che Falcone e
Borsellino davano del fenomeno mafioso.
Io sono napoletano e sono cresciuto in
un paese dell'immediata provincia a nord di Napoli, Marano. Ora, pur
nelle differenze che ci sono da sempre tra la mafia siciliana e la
camorra napoletana, queste sono di carattere per lo più politico
organizzativo, resta invece immutata la percezione che del fenomeno
ha la popolazione, sia che si viva a Napoli che a Palermo (altro
discorso può valere per le zone più rurali, ma per le due grandi
città del sud c'è una profonda similitudine nell'impatto della
società civile nei confronti dei fenomeni criminali organizzati). La
mia esperienza con il fenomeno comincia quando ero un ragazzino di
8-9 anni, praticamente quando mia madre cominciò a lasciarmi
scendere in strada o nel cortile vicino, a giocare. E giocavo, da solo
o con gli amici, con niente, il più delle volte, o con un pallone...
ma spesso osservavo. Osservavo una realtà che per le prime volte si
disvelava a me priva dei filtri familiari, libero
nell'interpretazione autonoma di essa. Tra le migliaia di cose che
attiravano la mia attenzione c'era anche un uomo, di nome Michele,
che stazionava spesso al bar adiacente al portone del palazzo dove
abitavo. Mi colpiva la sua sfrontatezza, la sua ricerca
dell'ostentazione del lusso, la sua plateale prevaricazione sulle
persone che gli stavano intorno, ma anche il modo irrispettoso che
aveva di trattare sua moglie (che da ragazza viveva al primo piano
del mio stesso palazzo) o suo suocero; atteggiamenti lontani
infinitamente da quello a cui mi aveva invece abituato mio padre...
mi era profondamente antipatico. Dopo un po' di tempo avevo imparato
ad evitarlo... non per paura, non penso di averci mai nemmeno
parlato, ma per un senso di disgusto per lui e anche per il
servilismo spinto che osservavo nelle persone che aveva attorno.
Nella mia testa era “altro da me” per dato di fatto e per scelta
mia personale ed inderogabile.
Marano era allora (siamo a cavallo tra
gli anni 70 e 80) terra dei Nuvoletta, famiglia camorrista che gli
atti giudiziari indicheranno come l'unica del napoletano affiliata a
Cosa Nostra siciliana, implicata ai massimi livelli criminali nel
traffico internazionale di armi e di stupefacenti. Negli stessi anni
il territorio napoletano era sconvolto dal fenomeno “Nuova Camorra
Organizzata” di Raffaele Cutolo, compresa una delle più grandi
guerre di camorra che Napoli abbia mai conosciuto. I Nuvoletta si
schierarono contro i cutoliani, con tutto quello che questo
comportava.
Un giorno, avevo 11 anni e frequentavo
la prima media, tornavo a casa da scuola. La scuola che frequentavo
era distante una decina di minuti da casa mia e passeggiavo per
strada assorto nei miei pensieri. Per entrare nel portone dove
abitavo dovevo obbligatoriamente passare davanti al bar di cui ho
parlato e, immediatamente dopo, dovevo voltare l'angolo della
rientranza del palazzo dove era situato il portone, che, per questo,
non era immediatamente visibile se non dopo aver svoltato l'angolo.
Una cosa che notai, vedendo in lontananza la strada che ancora mi
divideva dal palazzo dove abitavo, era uno strano silenzio... non una
persona seduta ai tavolini esterni del bar, non un passante... il
deserto; cosa alquanto inusuale per Marano, pur trattandosi dell'ora
di pranzo. Senza farci troppo caso voltai l'angolo per percorrere i
5/6 metri che ancora mi dividevano dallo scalino antecedente il
portone di casa e mi fermai pietrificato. A terra un uomo in un lago
di sangue mi sbarrava la strada... lì per lì non vidi di chi si
trattava, stava steso pancia in giù con il viso rivolto verso il
portone; quelli che erano visibili erano i buchi che aveva nella
schiena. Dopo qualche attimo di esitazione mi decisi a superare
l'ostacolo; con un lungo passo scavalcai il corpo ed evitai la pozza
di sangue, ma facendolo vidi anche di chi si trattava... era Michele.
Citofonai come se nulla fosse e, inspiegabilmente, senza provare
sostanzialmente nulla. Mi rispose mia madre che aprì il portone,
salii al secondo piano dove abitavo e per le scale meditavo tra me e
me sul fatto che Michele era un “pezzo di merda” e sulla fine che
evidentemente fanno i “pezzi di merda”; sostanzialmente
soddisfatto dell'averlo da sempre stigmatizzato come “altro da me”.
Soltanto dopo mi resi conto che se
fossi arrivato a casa con qualche minuto di anticipo le cose
sarebbero state molto diverse e pericolose per me e che non bastava
che Michele fosse “altro da me” per non essere coinvolto in uno
scontro a fuoco all'età di 11 anni tornando a casa da scuola. La
macchia di sangue sull'asfalto adiacente al portone rimase a lungo,
mesi, fino a che il condominio non decise di riasfaltarlo...
Credo che tale episodio abbia
condizionato molto la mia vita, le mie scelte, le mie frequentazioni,
le cose in cui credo, il mio atteggiamento nei confronti degli altri,
sempre teso a colmare lo spazio che c'è tra l'essere “altro da
Michele” e il non aver bisogno di questo stesso spazio; nella vita,
nella famiglia, nella società, nel mondo... non si può vivere
accontentandosi del fatto che la mafia non riguardi direttamente la
nostra vita, vivendo semplicemente come se essa non esistesse o
limitandosi alla retorica antimafia, tanto gratificante per “l'io”
di chi la pratica, quanto inutile e cacofonica alle orecchie di chi
subisce tale fenomeno. I modi di fare di Michele li ho rivisti spesso
nella mia vita e raramente messi in atto da mafiosi... spesso erano
poliziotti, carabinieri, medici, avvocati, politici, sindacalisti,
giornalisti; sempre più pronti ad abusare del piccolo ritaglio di
potere che la società aveva affidato loro, prevaricando, trattando
male o, peggio ancora, ignorando chi era loro sottoposto o si
rivolgeva loro per un aiuto... certo con la mafia non avevano nulla a
che fare, ma non ho esitato un attimo a considerare tali uomini
“altro da me”.
Gennaro Cangiano
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