Copyright di Gennaro Cangiano - per informazioni scrivere a cangianogennaro@gmail.com. Powered by Blogger.

Altro da me...

>> mercoledì 23 maggio 2012


Ieri era il ventesimo anniversario della morte di Giovanni Falcone, di sua moglie e di 3 dei 7 agenti che lo scortavano sull'autostrada verso Palermo, all'altezza dello svincolo per Capaci... Ho seguito come tutti le celebrazioni, le dirette televisive, i servizi dei telegiornali; ho letto sui giornali la retorica dei commentatori, le analisi più o meno approfondite di molti magistrati, gli interventi di praticamente tutti gli esponenti politici (devo dire con l'assordante ed inedito silenzio dei leghisti che, evidentemente, o non sono molto interessati da quello che considerano politica estera o, come dice la procura di Reggio Calabria, preferiscono la mafia calabrese a quella siciliana... chi sa).
Quello che però mi ha fatto molto riflettere è la palese distanza tra le analisi dei commentatori e la mia esperienza personale; innanzitutto perché, questa mia esperienza, combacia invece moltissimo con le analisi che Falcone e Borsellino davano del fenomeno mafioso.
Io sono napoletano e sono cresciuto in un paese dell'immediata provincia a nord di Napoli, Marano. Ora, pur nelle differenze che ci sono da sempre tra la mafia siciliana e la camorra napoletana, queste sono di carattere per lo più politico organizzativo, resta invece immutata la percezione che del fenomeno ha la popolazione, sia che si viva a Napoli che a Palermo (altro discorso può valere per le zone più rurali, ma per le due grandi città del sud c'è una profonda similitudine nell'impatto della società civile nei confronti dei fenomeni criminali organizzati). La mia esperienza con il fenomeno comincia quando ero un ragazzino di 8-9 anni, praticamente quando mia madre cominciò a lasciarmi scendere in strada o nel cortile vicino, a giocare. E giocavo, da solo o con gli amici, con niente, il più delle volte, o con un pallone... ma spesso osservavo. Osservavo una realtà che per le prime volte si disvelava a me priva dei filtri familiari, libero nell'interpretazione autonoma di essa. Tra le migliaia di cose che attiravano la mia attenzione c'era anche un uomo, di nome Michele, che stazionava spesso al bar adiacente al portone del palazzo dove abitavo. Mi colpiva la sua sfrontatezza, la sua ricerca dell'ostentazione del lusso, la sua plateale prevaricazione sulle persone che gli stavano intorno, ma anche il modo irrispettoso che aveva di trattare sua moglie (che da ragazza viveva al primo piano del mio stesso palazzo) o suo suocero; atteggiamenti lontani infinitamente da quello a cui mi aveva invece abituato mio padre... mi era profondamente antipatico. Dopo un po' di tempo avevo imparato ad evitarlo... non per paura, non penso di averci mai nemmeno parlato, ma per un senso di disgusto per lui e anche per il servilismo spinto che osservavo nelle persone che aveva attorno. Nella mia testa era “altro da me” per dato di fatto e per scelta mia personale ed inderogabile.
Marano era allora (siamo a cavallo tra gli anni 70 e 80) terra dei Nuvoletta, famiglia camorrista che gli atti giudiziari indicheranno come l'unica del napoletano affiliata a Cosa Nostra siciliana, implicata ai massimi livelli criminali nel traffico internazionale di armi e di stupefacenti. Negli stessi anni il territorio napoletano era sconvolto dal fenomeno “Nuova Camorra Organizzata” di Raffaele Cutolo, compresa una delle più grandi guerre di camorra che Napoli abbia mai conosciuto. I Nuvoletta si schierarono contro i cutoliani, con tutto quello che questo comportava.
Un giorno, avevo 11 anni e frequentavo la prima media, tornavo a casa da scuola. La scuola che frequentavo era distante una decina di minuti da casa mia e passeggiavo per strada assorto nei miei pensieri. Per entrare nel portone dove abitavo dovevo obbligatoriamente passare davanti al bar di cui ho parlato e, immediatamente dopo, dovevo voltare l'angolo della rientranza del palazzo dove era situato il portone, che, per questo, non era immediatamente visibile se non dopo aver svoltato l'angolo. Una cosa che notai, vedendo in lontananza la strada che ancora mi divideva dal palazzo dove abitavo, era uno strano silenzio... non una persona seduta ai tavolini esterni del bar, non un passante... il deserto; cosa alquanto inusuale per Marano, pur trattandosi dell'ora di pranzo. Senza farci troppo caso voltai l'angolo per percorrere i 5/6 metri che ancora mi dividevano dallo scalino antecedente il portone di casa e mi fermai pietrificato. A terra un uomo in un lago di sangue mi sbarrava la strada... lì per lì non vidi di chi si trattava, stava steso pancia in giù con il viso rivolto verso il portone; quelli che erano visibili erano i buchi che aveva nella schiena. Dopo qualche attimo di esitazione mi decisi a superare l'ostacolo; con un lungo passo scavalcai il corpo ed evitai la pozza di sangue, ma facendolo vidi anche di chi si trattava... era Michele. Citofonai come se nulla fosse e, inspiegabilmente, senza provare sostanzialmente nulla. Mi rispose mia madre che aprì il portone, salii al secondo piano dove abitavo e per le scale meditavo tra me e me sul fatto che Michele era un “pezzo di merda” e sulla fine che evidentemente fanno i “pezzi di merda”; sostanzialmente soddisfatto dell'averlo da sempre stigmatizzato come “altro da me”.
Soltanto dopo mi resi conto che se fossi arrivato a casa con qualche minuto di anticipo le cose sarebbero state molto diverse e pericolose per me e che non bastava che Michele fosse “altro da me” per non essere coinvolto in uno scontro a fuoco all'età di 11 anni tornando a casa da scuola. La macchia di sangue sull'asfalto adiacente al portone rimase a lungo, mesi, fino a che il condominio non decise di riasfaltarlo...
Credo che tale episodio abbia condizionato molto la mia vita, le mie scelte, le mie frequentazioni, le cose in cui credo, il mio atteggiamento nei confronti degli altri, sempre teso a colmare lo spazio che c'è tra l'essere “altro da Michele” e il non aver bisogno di questo stesso spazio; nella vita, nella famiglia, nella società, nel mondo... non si può vivere accontentandosi del fatto che la mafia non riguardi direttamente la nostra vita, vivendo semplicemente come se essa non esistesse o limitandosi alla retorica antimafia, tanto gratificante per “l'io” di chi la pratica, quanto inutile e cacofonica alle orecchie di chi subisce tale fenomeno. I modi di fare di Michele li ho rivisti spesso nella mia vita e raramente messi in atto da mafiosi... spesso erano poliziotti, carabinieri, medici, avvocati, politici, sindacalisti, giornalisti; sempre più pronti ad abusare del piccolo ritaglio di potere che la società aveva affidato loro, prevaricando, trattando male o, peggio ancora, ignorando chi era loro sottoposto o si rivolgeva loro per un aiuto... certo con la mafia non avevano nulla a che fare, ma non ho esitato un attimo a considerare tali uomini “altro da me”.

Gennaro Cangiano

0 commenti:

Share

BloggerWidget

  © Blogger templates Shiny by Ourblogtemplates.com 2008

Back to TOP