Copyright di Gennaro Cangiano - per informazioni scrivere a cangianogennaro@gmail.com. Powered by Blogger.
Visualizzazione post con etichetta filosofia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta filosofia. Mostra tutti i post

Il primo numero de "Il Riflesso"

>> venerdì 11 settembre 2015


Cliccando sull'immagine potrai accedere al primo numero de "Il Riflesso", periodico di approfondimento culturale a cura di Gennaro Cangiano. Puoi partecipare al progetto inviando articoli a cangianogennaro@gmail.com.

Read more...

Scontro di civiltà

>> sabato 10 gennaio 2015



Clicca per il libro in formato PDF
Il clima è davvero da"scontro di civiltà"? 
Questo nuovo clima è pienamente riflesso nel lavoro che vi presento di Claudio Corradetti e Andrea Spreafico, i quali si misurano coraggiosamente con una delle big questions del nostro tempo, saggiando criticamente la tenuta della tesi huntingtoniana del tendenziale “scontro di civiltà” e mettendo in campo un originale mix di considerazioni filosofiche nel merito del relativismo e della possibile traducibilità dei linguaggi, di teoria sociale e politica e di analisi sociologica empirica intorno al profilo culturale degli immigrati islamici in Europa. Il coraggio e il pregio del libro è quello di fare reagire insieme due piani: la domanda teorica intorno alla possibilità di un universalismo in grado di coniugarsi con la differenza delle identità e delle culture e lo sforzo di testare possibili risposte sul terreno concreto e pressantemente topical della tensione fra identità islamica e cultura occidentale.Il pregio maggiore del lavoro di Corradetti e Spreafico è proprio quello di camminare con grazia su una sottile corda che li tiene sospesi fra due precipizi entrambi da evitare: quello di un universalismo insensibile alle culture, alle differenze, ai contesti e quello di un’ermeneutica che delle culture, delle differenze, dei contesti rimane irrimediabilmente ostaggio. Un camminare sul filo che prende le mosse da una domanda pra- tica del presente – lo “scontro di civiltà” è veramente una minaccia ineluttabile e, nel caso, come possiamo evitarlo? – e la affronta combinando elementi tratti tanto dalla riflessione teorica sull’identità e sulla traducibilità interculturale quanto dai nostri saperi intorno alle identità oggi a maggior rischio di entrare in tensione con l’idea cosmopolitica di diritti umani fondamentali, quella islamica in primo luogo. La migliore teo- ria nasce sempre così. 

Read more...

L'organismo etico

>> martedì 6 gennaio 2015

Clicca sull'immagine per scaricare l'ebook

La cultura degli ultimi cinquecento anni si è costruita intorno a tale visione, causando una progressiva perdita di identità del singolo, in relazione a se stesso e all’ambiente, naturale e sociale.

La scienza dell’ultimo secolo mostra una visione dell’universo e della realtà che antiche filosofie avevano intuito migliaia di anni fa, in oriente e in occidente. Quelle stesse filosofie indicavano principi e regole di comportamento che realizzavano un’esistenza consapevole e, proprio perché consapevole, equilibrata.
Potrei accorgermi fra un attimo che tutto è un sogno e non semplicemente illusione, perché è ormai certo che la realtà così come la percepisco è un illusione. 
In ogni caso, dal sincretismo di sapienze millenarie e di teorie scientifiche dell’ultimo secolo emerge una visione armonica dell’uomo. Al di là delle eredità del pensiero giudaico-cristiano, dell'antropocentrismo umanista e del paradigma cartesiano. Questo è in sintesi l'incipit del libro di Pietro Moretti che vi presentò oggi e che potete scaricare gratuitamente cliccando sull'immagine di questo post.

...Mi spiego - pensa finalmente un essere umano -, mi ri- velo, svelo a me stesso la consapevolezza di essere un corpo, un organismo e di esistere in totale dipendenza dall’ambiente, condizionato dalle leggi di un universo che mi tiene in vita. Del resto, tutte le attività del corpo che sono avvengono spontanee, non mi devo preoccupare di ricordarmi di re- spirare, il cuore pulsa regolare e il sangue mi nutre. Una coscienza riflessiva mi suggerisce che tutte queste informazioni trovano una loro conferma nel naturale corso delle cose. Sono tenuto in vita da forze inconsce, dal respiro, in simbiosi con quanto mi circonda, che informa in ogni istante le reti neurali, fitte e intricate, da cui emerge la psiche, la mente...

Read more...

Etty Hillesum, germogli di una nuova umanità

>> sabato 3 gennaio 2015



Vi presento un'interessantissima conferenza di Marco Guzzi sulla figura di Etty Hillesum. Nata nel 1914 in Olanda da una famiglia della borghesia intellettuale ebraica, Etty Hillesum muore ad Auschwitz nel novembre del 1943.
Ragazza brillante, intensa, con la passione della letteratura e della filosofia, si laurea in giurisprudenza e si iscrive quindi alla facoltà di lingue slave; quando intraprende lo studio della psicologia, divampa la seconda guerra mondiale e con essa la persecuzione del popolo ebraico.
Durante gli ultimi due anni della sua vita, scrive un diario personale: undici quaderni fittamente ricoperti da una scrittura minuta e quasi indecifrabile, che abbracciano tutto il 1941 e il 1942, anni di guerra e di oppressione per l’Olanda, ma per Etty un periodo di crescita e, paradossalmente, di liberazione individuale.

Read more...

Filosofia dell'assenteismo


Quello dell'assenteismo è stato considerato da sempre un malanno da estirpare dai luoghi di lavoro. L'assenteista è stato visto in diversi modi, e comunque generalmente come un tipo disonesto, un mangiapane a tradimento.


Eppure dovremmo considerarlo in una maniera diversa.
È comprensibile che un'impresa non possa permettersi uno spreco come quello causato dai dipendenti assenteisti. Questo è un criterio economico che mostra di avere tutte le ragioni. Non altrettanto vale per la connotazione etico-morale.



Il lavoro salariato è un'invenzione dell'uomo che non ha nella natura dei fondamenti innati.
È quindi una persona normale quella che cerchi di evitare di lavorare.
L'assenteismo è soprattutto presente laddove il frutto del lavoro non è direttamente percepibile. Se mi procuro il cibo perché ho fame è naturale che veda gli effetti del mio operato e mi faccia convinto a ripeterlo ogni volta che ne ho bisogno.
Più difficile è convincere qualcuno che è giusto che lavori, non tanto per ottenere un prodotto, quanto per meritarsi lo stipendio a fine mese.
La coercizione, lungi dall'essere un deterrente, favorisce il desiderio di fuga, e quindi il fenomeno dell'assenteismo.



L'assenteista in molti casi è il vero lavoratore ecologico. In molti casi l'assenteismo non è solo un puro e semplice atto di evitamento, ma spesso un gesto di dissenso in una situazione in cui non sono possibili altre forme di espressione (la condizione schizogena del doppio legame Batesoniano - Double Bind).



Ricordo alcuni direttori di azienda in pensione o prossimi alla quiescenza che durante una cena si complimentavano l'un l'altro di quanto avessero messo in atto del motto - ai loro occhi deivertentissimo e giusto - che gli uomini si dividono in due grandi categorie i "piglia" (dove lo si può facilmente intuire, visto che l'enfasi sul triviale è una delle connotazioni distintive della sintassi di potere) e i "ficca".
Agli occhi di gran parte di queste direzioni le imprese sono dei trenini, una piccola parte della rete ferroviaria del ciclo aliment-anale nazionale, continentale, mondiale.



L'assenteista, prima ancora di essere uno che si astiene dal lavorare è uno che si astiene dalla partecipazione a questo meccanicismo sado-masochista inefficiente e parassitario. In questo senso non fa del male ai bilanci aziendali: fa del bene, piuttosto, in quanto riduce lo spreco di quest'attività residuale che è diventata presto dominante nelle organizzazioni del bel paese.
Come dire che in Italia ci sono picchi di assenteismo proporzionali all'immoralità del potere anti-economico.



Lungi dal proporre un'apologia dell'assenteismo, ne suggerisco l'interpretazione come sostanziale epifenomeno della direzione aziendale centrata sul potere, anziché sul risultato (out). Se la direzione lavorasse per il risultato ci sarebbero molti meno dipendenti assunti per riempire di risorse la giustificazione del potere del responsabile. L'assenza della persona necessaria si traduce in un'immediato effetto di visibilità. E soprattutto ci sarebbero meno sostituzioni di persone critiche con personale temporaneo incompetente.
Purtroppo il precariato, così in voga negli ultimi tempi, non fa che motivare l'assenteismo: non solo e non tanto quello dei precari stessi, quanto soprattutto quello degli equivalenti in ruolo che si trovano a fare quello che l'assunzione temporanea non riesce a realizzare, pur essendo implicitamente squalificati, in quanto equiparati a dei precari (in quanto tali non indispensabili).



Una buona direzione saprebbe che cosa far fare alle persone e come trasmettere la visibilità del proprio operato ai dipendenti. Lavorare "con te" e non "per te", questa è l'unica razionalità in grado di controbattere le ragioni nobili dell'assenteismo critico.



Una nuova filosofia delle risorse umane prevede che si lavori quel che serve, in quanti - e competenti - si rendono necessari per un risultato percepibile e riconosciuto in un sistema d'impresa bilanciato e dinamico, più smart che heavy, più intelligente che potente.

Read more...

Il capodanno del filosofo

>> mercoledì 31 dicembre 2014


Arriva sempre quel momento, ogni Capodanno. Il momento in cui si riflette e tutti sono pronti ad esclamare: «Certo che quest’anno è proprio volato. Come passa veloce il tempo!». Per il panettiere è passato con la stessa velocità della lievitazione di una pagnotta, per l’estetista giusto l’urlo di una cliente che le ha chiesto la ceretta all’inguine, per l’impiegato di banca il tempo necessario di premere per l’ennesima volta il tasto on/off della calcolatrice.
E per il filosofo? Il filosofo “pensa e basta”: per lui con che velocità è passato?
Il tempo è passato come…? Con la stessa velocità di…?
Il filosofo proprio non se la sente di dire la sua come fanno tutti gli altri. Prima vuole rifletterci approfonditamente così,  quando anche quest’anno arriverà il momento di pronunciare la fatidica frase, lui sarà pronto per lasciare tutti senza parole. Quindi il 31 dicembre si sveglierà prestissimo e salterà in macchina dirigendosi verso la casa di montagna, dove si svolgerà la classica festa all’insegna di tintinnii di calici e buoni propositi. Il viaggio per arrivare dura tutto il giorno, quindi il filosofo avrà modo per capire quale sia l’immagine che più degnamente esprime quanto passi veloce il tempo per lui. Di certo «deve essere qualcosa di difficile, che in pochi possono capire» perché all’università, questa frase, la dicevano sempre, e quindi se la dicevano lì doveva essere sicuramente vera. Forse il tempo passa con la stessa velocità con cui la coscienza diventa autocoscienza nel pensiero di Hegel: giusto il tempo di uno scambio di sguardi tra Servo e Padrone. «Il tempo è ciclico o lineare? Non l’ho ancora capito. Forse entrambi. Forse nessuno dei due. Ma chi sono io, semplice mortale, per rispondere?» elucubra il filosofo, mano sul volante, piede sull’acceleratore, testa tra le nuvole. «Il tempo è un punto, una linea spezzata, chiusa, aperta, dritta, una retta, una semiretta, un segmento, un poliedro…», continua il filosofo tra una curva e l’altra. «Sarà un’idea, un’astrazione, un sinolo? Interiore o esteriore? Indotto, dedotto oppure intuito? Il tempo, a sua volta, “ha tempo”? Quando comincia e quando finisce? E se non fosse possibile esprimere un “quando”, perché il tempo è solo un’illusione? Eppure io “quando” lo dico, ma magari sto sognando… Allora vedi che Cartesio aveva ragione, come ho pensato la prima volta che ho letto Il discorso sul metodo. Oppure, al contrario, ci sono più tempi: il tempo della scienza e quello della coscienza, come diceva Bergson. Ma questo di certo non sintetizza bene come il tempo scorra per il filosofo! Aspetta: tutto scorre. E allora? Io scorro? E scorro come il tempo o più lentamente? Il linguaggio blocca il tempo o lo culla nel suo defluire?».

Insomma, curva, accelera, pensa, frena, rifletti, fermati al semaforo, fai attenzione al ghiaccio sui bordi della strada, il filosofo è arrivato a destinazione. Ha pensato al tempo per tutto il viaggio: mentre parcheggiava, rischiando di investire la figlia della vicina che stava facendo un pupazzo di neve, sotto la doccia calda che ha fatto durare di più “per prendere tempo”, mentre sua moglie gli metteva la cravatta, perché lui non ha ancora imparato. Quando ha suonato il primo ospite, e anche l’ultimo.
Ora sono le 23:58, manca pochissimo al nuovo anno. Il panettiere ha già detto che quest’anno è stato veloce come la cottura degli avanzi di pasta, l’estetista come sfoltire le sopracciglia di una modella, l’impiegato di banca come fare un sorriso quando al mattino si sistema nella sua postazione. Ecco fatto, sono le 24:00 in punto e l’unico a essere rimasto senza parole è il filosofo. Spaesato, smarrito, evaso dalla realtà, ancora lì a chiedersi che cosa sia il tempo. Poi, a un certo punto, il trillo di un cellulare. «Buon #2015 a tutti! #champagne #festa #buonipropositi»: il tempo nel 2014 era passato veloce come un tweet. Per tutti, nessuno escluso.

La morale? Non cercare mai di cambiare il mondo, senza prima averlo osservato bene e vissuto.
Io non sarei mai e poi mai quel filosofo, ma in fondo sono solo un apprendista.

Read more...

Eduardo e Pirandello

>> sabato 27 dicembre 2014

Clicca sull'immagine per vedere
"Io, l'erede" di Eduardo in streaming
Eduardo e Pirandello: due tra i maggiori autori del nostro tempo.

Molti critici ritengono superfluo un confronto tra i due, poichè sostengono che il teatro post-pirandelliano si è, per un verso o per l'altro, rifatto all' autore siciliano e attribuiscono a ciò gli elementi " pirandelliani " del teatro di Eduardo.
Tuttavia, confrontando gli argomenti trattati dai due e le problematiche della società che li circonda, si potranno meglio individuare affinità e differenze.
Pirandello vive la crisi della sua età, assiste al morire degli ideali romantici, all' insufficienza di quelli naturalistici e veristi, al nascere del decadentismo.
Egli, rispetto a D'Annunzio, rappresenta l'altro volto del decadentismo, il più triste e disilluso, spietato e consapevole.
In un primo periodo aderisce al naturalismo e, obbediente ai suoi dettami, ricerca nelle vicende umane lo snodarsi della catena causa- effetto; ma ben presto entra in crisi perchè alla narrazione naturalista che si avvia verso esiti previsti si sostituisce quella di una realtà irrazionale che stabilisce fra gli uomini legami imprevedibili e casuali.
Attraverso: " L 'esclusa ", " Il turno ", e " Il fu Mattia Pascal ", Pirandello arriva a: " Si gira ", come fu chiamato nella stesura definitiva: " Quaderni di Serafino Gubbio operatore " che è l' ultimo anello della catena che lo porta al teatro come unica possibile forma di comunicazione.
Vista l' insufficienza dei valori naturalistici e l' impossibilità di sostituire a questi, rivelatisi falsi, dei nuovi valori, arriva alla coscienza dell' impossibilità di pronunciare qualsiasi giudizio sulla vita e le azioni umane; la vita quindi non può che ridursi a un susseguirsi ininterrotto di scene, si riduce, insomma, a puro teatro.
E al teatro come unica possibile forma di rappresentazione del reale, Pirandello si volge.
Eduardo De Filippo nasce, possiamo dire, nel teatro ; figlio d' arte comincia a recitare nella compagnia di Scarpetta a quattro anni.
In un suo scritto Eduardo afferma: " Lo sforzo disperato che l' uomo compie nel tentativo di dare alla vita un qualsiasi significato è teatro."
Le prime commedie di Eduardo sono, riallacciandosi alla tradizione scarpettiana, delle farse ma già contengono i germi di quell' amarezza che si individuerà nelle commedie della maturità.
Al 1933 risale l' incontro fra i due; Eduardo propose al grande drammaturgo di fare della novella: " L' abito nuovo ", una commedia.
Insieme prepararono la sceneggiatura che Eduardo volse in dialetto napoletano.
Il 10 dicembre 1936 Pirandello moriva senza veder rappresentata la commedia, lasciando in Eduardo il rimorso di non averla messa prima in scena.
Ricordiamo un elemento presente in entrambi: l' umorismo.
Da Pirandello è visto come " il sentimento del contrario ", scomposizione ironica della realtà che serve da preludio alla distruzione dei suoi valori e miti fittizi; da Eduardo come " la parte amara della risata ed è determinato dalla delusione dell' uomo che è, per natura, ottimista."
Passando ora alla produzione pirandelliana più feconda, notiamo i caratteri fondamentali di una realtà priva di valori; al capovolgimento di quelli ottocenteschi si erano create delle verità fittizie, usate ipocritamente come vere.
Ecco quindi l' impossibilità di una verità certa in: " Così è se vi pare " dove il pensiero umano crea e distrugge la realtà, la fa comparire e scomparire fino a culminare nelle parole di colei che, di volta in volta è la figlia o la moglie: " La verità è solo questa... per me io sono colei che mi si crede".
Ecco la disperazione dell' uomo che si vede assegnare dal destino e dagli altri una parte e a quella deve restare legato senza possibilità di scampo, condannato dalle convenzioni sociali e dall' ipocrisia degli altri a recitarla fino in fondo.
E' il dramma di Angelo Baldovino ne: " Il piacere dell' onestà " e lui a questa schiavitù si ribella; è il dramma di
Leone Gala ne: " Il gioco delle parti " il quale non si ribella alla sua parte ma, attraverso di lei, si vendica.
E', infine il dramma di Martino Lori che in: " Tutto per bene " scopre con orrore che la parte assegnatagli dal gioco non è quella da lui voluta, che la forma che lo chiude non gli appartiene.
Questi temi trovano la massima espressione artistica in: " Sei personaggi in cerca d' autore ". L' uomo non può uscire dalla parte che gli è stata assegnata, che lo blocca e lo cristallizza, non può vivere un' esperienza diversa perchè in quella parte gli altri, inevitabilmente, lo ricacciano cercando di difendere, a loro volta, la propria ragion d' essere.
In: " Ciascuno a suo modo " la tragedia umana raggiunge il culmine e rivela l' assurdo di una vita ridotta ad apparire illusorio: a questo punto Pirandello si arresta e si allontana dal teatro per circa due anni.
Eduardo ha diviso le sue commedie in due parti: " Cantata dei giorni pari " e " Cantata dei giorni dispari "; la prima contiene le commedie precedenti alla seconda guerra mondiale, la seconda quelle del periodo post-bellico.
Il giudizio di Eduardo nel 1945 sulla prima raccolta è: " In quelle commedie ho tenuto in vita una Napoli che era già morta in parte e in parte tenuta in vita dalla paternalistica premura del regime fascista.".
La " Cantata dei giorni dispari " fa invece riscontro a un' epoca nuova che ha conosciuta la rottura causata dalla guerra.
Il mutamento maggiore è che Dio, religione, autorità, famiglia sono stati messi sotto accusa e contestati.
L' uomo si è trovato solo davanti alla vita senza riuscire a darle un significato, solo tra altri uomini con i quali non trova punti in comune e non riesce a comunicare; nè a ciò è seguita la nascita di nuovi valori.
Quindi anche la maturità di Eduardo si sviluppa in un periodo, anche se storicamente diverso, confuso come quello pirandelliano.
Ma, mentre per Pirandello è in gioco l' essere dell' uomo, la sua personalità, la sua struttura psicologica, quei connotati che fanno di una persona un' entità inconfondibile, Eduardo osserva soprattutto il modo di essere dell' uomo, il suo comportamento e inserimento nei confronti della società.
Per Eduardo ogni personaggio ha dei precisi connotati che non vengono messi in discussione; piuttosto è la società che coarta l' uomo che ne indirizza le azioni in una direzione piuttosto che in un' altra, che lo avvolge in una rete di ipocrisie, di sospetti, di incomprensioni.
A volte i suoi protagonisti sono ingenui e disarmati come Luca in: " Natale in casa Cupiello " che non vede il male intorno a sè e, quando ne è toccato, non resiste all' impatto e muore.
Anche Gennaro di: " Napoli milionaria " è un incompreso ma in lui l' impatto con gli orrori della guerra genera una nuova maturità e consapevolezza che gli consentono di imporsi in seno alla famiglia e di trovare nella solidarietà fra i suoi membri la forza di affrontare i disastri che la guerra ha lasciato dietro di sè.
Nel 1946 scrive:" Questi fantasmi " che ripete il tema a lui caro dell' incomprensione fra gli uomini, della solitudine e della solidarietà vista come ancora di salvezza.
Per questa commedia e la successiva " Grande magia " per le quali si parlò di " pirandellismo " in Eduardo, è importante il giudizio di G. Pullini: " In Eduardo il dramma non consiste nell' impossibilità di trovare un linguaggio comune tra due realtà di cui è andata perduta la connessione logica ma...fra due realtà di cui è andato perduto il collegamento morale...Insomma da dramma intellettuale che sfiora la metafisica in Pirandello, si fa ( in Eduardo ) dramma di costume, di colpevolezza e di innocenza.".
Nelle commedie seguenti i mali della società sono affrontati da Eduardo con sempre maggiore amarezza: il trionfo della dignità basata sulla menzogna: " Le bugie hanno le gambe lunghe ", la rinuncia definitiva al colloquio con gli altri : " Le voci di dentro ", lo smembrarsi del nucleo familiare: " Mia famiglia ".
In alcune come: " Il figlio di Pulcinella " e " Sabato domenica e lunedì "affiora la speranza nei giovani quali fondatori di un mondo migliore.
Pirandello, negli ultimi anni della sua produzione si stacca dalle preoccupazioni esistenziali e, nelle sue ultime commedie, ritrova il senso del misterioso, del miracoloso, della bellezza del mondo, il senso della poesia in un ritrovato amore per la natura.
Eduardo, al contrario, ha continuato a scandagliare i rapporti fra uomo e società perdendo man mano la speranza in una possibile solidarietà fra gli uomini.
L' essere umano è condannato alla solitudine e al perpetuo giudizio e condizionamento da parte degli altri.
Un lavoro a sè, nella produzione di Eduardo è: " L' arte della commedia ", in cui l' autore stesso parlando dei personaggi li definisce: " ...non personaggi in cerca d' autore ma attori in cerca di personalità..." frase che ribadisce, ancora una volta, la sostanziale differenza con Pirandello; non persone in cerca di una loro identità ma uomini forniti di una precisa personalità che cercano una dimensione sociale in cui esplicarla senza soggiacere a pressioni e incomprensioni di un mondo che non sa o non vuole comprenderli.

Read more...

Narrare il futuro

>> venerdì 26 dicembre 2014

Vi presento un'interessantissimo intervento di Remo Bodei. Gli interessi filosofici di Remo Bodei si sono inizialmente focalizzati sulla filosofia classica tedesca, sull'idealismo, sulla cultura e l'estetica del tardo Ottocento; in seguito si sono spostati sul pensiero utopistico dell'Ottocento e del Novecento e sulla filosofia politica contemporanea. Nell'ultima decade le sue indagini si sono estese al mondo greco e romano, ad Agostino e alla storia del concetto di individualità e di passione. Più recentemente ha orientato la sua ricerca sul tema del desiderio, cioè sulla funzione delle passioni volte al conseguimento di migliori condizioni di vita.

Read more...

Nietzsche e il gioco

Clicca sull'immagine per
il documento in PDF
Può sembrare strano occuparsi del gioco dal punto di vista filosofico; gioco e pensiero appartengono a dimensioni di vita contrapposte: la lieta spensieratezza del gioco, che unisce realtà e fantasia, appare molto lontana da ogni critico e riflessivo esame delle cose, tipico del pensiero filosofico. Tuttavia, come ha saputo dimostrare il filosofo tedesco Eugen Fink (1905-1975), allievo di Husserl e di Heidegger all’università di Friburgo, anche il gioco può essere un degno oggetto d’indagine da parte della filosofia.
Quello che vi presento oggi è un bel saggio di Benedetta Zavatta che affronta appunto il tema del gioco, ma nella particolare interpretazione filosofica di Nietzsche. (Cliccando sull'immagine si accede al documento in formato PDF). Buona lettura.

Read more...

Sartre e il Natale di Gesù

>> martedì 23 dicembre 2014

Natale 1940: lo scrittore francese, internato in un campo di prigionia tedesco, compone un racconto da recitare in una baracca. È il testo teatrale Bariona, ou le Fils du tonnerre. Incontriamo un Sartre inedito che per un istante sembra commuoversi per l’affezione stupita di Maria, lo sguardo di Giuseppe e la speranza dei Magi e dei pastori davanti al Dio bambino. "Hanno unito le mani e pensano: qualcosa è incominciato. E si sbagliano..."

<I>Madonna col Bambino</I>, Giovanni Bellini, Museo di Castelvecchio, Verona
Madonna col Bambino, Giovanni Bellini,
Museo di Castelvecchio, Verona



L’ateismo di Sartre: una filosofia senza paternità?

«Qual è il vero volto di Sartre?» si chiedeva Charles Moeller in uno splendido saggio dedicato all’autore1. «È l’esperienza esistenziale della nausea, davanti alla sovrabbondanza cieca, oscena della natura? Oppure questa nausea non è che una conseguenza? C’è, all’origine, un’opzione, una scelta in favore di un certo tipo di esperienza umana a detrimento di altre? In altre parole è la nausea il fatto fondamentale o è la scelta del pensiero ateo che l’obbliga a vedere della vita un solo lato e sempre lo stesso?»2. Per rispondere al quesito Moeller tenta di decifrare il “paradosso” dell’uomo Sartre, di ritrovare il livello di esperienza che sta dietro il suo pensiero. Questo livello viene colto a partire da una lacuna, quella della paternità, che incide in tutta la visione del mondo del filosofo. Non ha forse egli scritto, ricordando la sua infanzia, «a quel tempo eravamo tutti, più o meno, orfani di padre: i Signori padri erano o morti o al fronte, e quelli che restavano, minorati, smidollati, cercavano di farsi dimenticare dai propri figli; era il regno delle madri»3? Per Moeller «sembra che sia mancata a Sartre una esperienza fondamentale, quella della paternità. […] Gli è mancata l’esperienza del legame intimo che unisce il senso di Dio e il senso della paternità»4. Rimasto orfano, assiste, nella sua infanzia, all’entrata in casa di un patrigno, nuovo marito della madre. È una situazione analoga a quella di Baudelaire, autore studiato da Sartre, nel quale poteva ritrovare una situazione simile alla sua. «Egli ha forse vissuto lo stesso dramma, ma l’ha risolto in modo diverso, con l’orgogliosa negazione della paternità, con l’affermazione violenta di una autonomia assoluta, della quale farà ben presto il perno della sua filosofia»5. Ipotesi difficile da certificare, secondo il critico, alla quale, tuttavia, non è possibile sottrarsi. «Non riesco a vincere l’impressione che il sentimento “d’essere di troppo”, che sembra così profondo nell’opera (pensiamo alla scena della radice in La nausée), trovi una delle sue ragioni nel fatto che Sartre fu orfano di padre e visse come un estraneo col patrigno»6. Il rifiuto della condizione filiale diviene rifiuto del mondo, avvertito come estraneo. In qualità di “straniero” (A. Camus) l’uomo si trova in un’esistenza assurda, egli è «di troppo», creatura non voluta da alcuno, desolato e anonimo passante in una metropoli immersa nella nebbia. Jean-Paul Sartre, secondo Moeller, «ha voluto negare di essere “figlio”»7. Al pari dell’uomo moderno, che «vuole essere “senza padre e senza madre”»8, la sua filosofia abolisce ogni idea di dipendenza. La libertà, come autonomia assoluta, creatrice, è lanegazione dell’alterità, della natura, di Dio. Libertà è negazione di ogni radice, legame, rapporto. Sartre ha il gusto del “nulla”: il “per sé”, la coscienza, è il vuoto che dissolve la bruta “cosalità” del mondo. In mezzo, tra il “nulla” dell’io e la realtà reificata, non ci sono più persone, volti, affetti. La filosofia della libertà come negatività esclude, fino a L’être et le néant, ogni esperienza dipositività. Mondo travolto dalla malafede, l’universo sartriano appare ambiguo, sordido, inquietante. La luce della grazia non squarcia la notte. Come ha osservato Gabriel Marcel, quello di Sartre è il sistema più logico di rifiuto di qualsiasi grazia che sia mai stato presentato. Per Dio, l’estraneo per eccellenza, il nemico della libertà e dell’autonomia, non v’è posto. L’esistenzialismo sartriano è rigorosamente ateo.
Tutto ciò è vero. Moeller ha colto molto bene la dinamica che porta Sartre a negare ogni alterità, alla doppia esclusione di Dio e del mondo. Così come coglie la necessità per cui l’ateismo deve radicalizzarsi in antiteismo, in opzione contro Dio. Rimangono cionondimeno, nella sua analisi, dei punti aperti che meritano una riflessione appropriata. Tra essi, in primo luogo, l’idea che l’anticristianesimo di Sartre sia correlativo alla sua condizione di orfano, al risentimento edipico verso il patrigno. Il problema in realtà è più complesso. Moeller non era in grado di risolverlo poiché il suo saggio, del 1957, non poteva usufruire di quella preziosa confessione autobiografica data da Les mots, edita da Gallimard nel 1964. Il rifiuto sartriano di Dio, la sua orgogliosa autonomia, restavano per lui un «nodo segreto» difficile da sciogliere poiché «Sartre, a differenza di Gide, non si mette mai in primo piano»9. Questo è quanto accade in Les mots dove il filosofo traccia un quadro della propria infanzia, dei propri desideri, della propria posizione religiosa. Quest’ultima, lungi dall’essere determinata dall’assenza del padre, è piuttosto dominata dalla figura del nonno, Charles Schweitzer, protestante e veemente anticattolico. «In privato, per fedeltà alle nostre provincie perdute, alla pesante allegria degli antipapalini, suoi fratelli, non si lasciava sfuggire occasione per mettere in berlina il cattolicesimo: i suoi discorsi da tavola assomigliavano a quelli di Lutero. Su Lourdes era inesauribile: Bernadette aveva visto “una donnetta che cambiava la camicia” […]. Raccontava la vita di san Labre, coperto di pidocchi, quella di santa Marie Alacoque, che raccoglieva con la lingua le deiezioni degli ammalati. Queste frottole mi sono state utili […] rischiavo di essere una preda per la santità. Mio nonno me ne ha disgustato per sempre: la vidi attraverso i suoi occhi, quella follia crudele mi stomacò con l’insipidezza delle sue estasi, mi terrificò col suo sadico disprezzo per il corpo»10. 

<I>L’adorazione dei Magi</I>, particolare, Gentile da Fabriano,  Galleria degli Uffizi, Firenze

L’adorazione dei Magi, particolare, Gentile da Fabriano, Galleria degli Uffizi, Firenze

Sartre, diviso tra il nonno protestante e la madre cattolica, chiusa con “un Dio suo”, vive una tensione profonda. «In sostanza la cosa mi prostrava: fui condotto all’incredulità non dal conflitto dei dogmi ma dall’indifferenza dei miei nonni. Ciononostante, ero credente: in camicia, inginocchiato sul letto, a mani giunte, dicevo tutti i giorni la preghiera, ma pensavo al buon Dio sempre meno spesso»11. Rievocando quel tempo Sartre confessa di raccontare «la storia di una vocazione mancata: avevo bisogno di Dio, mi fu dato, lo ricevetti senza capire che lo cercavo. Non potendo attecchire nel mio cuore, egli ha vegetato in me, poi è morto. Oggi, quando mi si parla di Lui, dico [...]: Cinquant’anni fa, senza quel malinteso, senza quell’errore, senza quell’incidente che ci separò, avrebbe potuto esserci qualcosa tra noi»12. 

Il posto, lasciato vuoto da Dio, viene occupato dalla letteratura, dall’arte dello scrivere. «Questo pastore mancato, fedele alla volontà di suo padre, aveva conservato il Divino per versarlo nella cultura. […] Scoprii questa religione feroce e la feci mia per dorare la mia sbiadita vocazione […] Diventai cataro, confusi la letteratura con la preghiera, ne feci un sacrificio umano»13. Sartre si sente predestinato, eletto, “annalista degli inferi”. «Da questo venne quel lucido accecamento di cui ho sofferto per trent’anni. Una mattina, nel 1917, a La Rochelle, aspettavo dei compagni che dovevano accompagnarmi al liceo; erano in ritardo, e presto non seppi più cosa inventare per distrarmi: decisi di pensare all’Onnipotente. Immediatamente ruzzolò nel cielo e sparì senza dare spiegazioni: non esiste, mi dissi con uno stupore di cortesia, e credetti risolto il problema. E in certo qual modo era risolto, dato che mai, in seguito, ho avuto la minima tentazione di riaprirlo. Ma l’Altro rimaneva, l’Invisibile, lo Spirito Santo, colui che era garante del mio mandato e che signoreggiava la mia vita per mezzo di grandi forze anonime e sacre. Di quello feci tanto più fatica a liberarmi in quanto s’era installato sulla parte posteriore della mia testa […]. Scrivere fu per molto tempo un chiedere alla Morte, alla Religione, in forma mascherata, di strappare la mia vita al caso»14. Questa fede, allorché Sartre scrive Les mots, è perduta. «L’illusione retrospettiva è in briciole; martirio, salvezza, immortalità, tutto si deteriora, l’edificio cade in rovina, ho acchiappato lo Spirito Santo nelle cantine e l’ho discacciato; l’ateismo è un’impresa crudele e di lungo respiro»15. Consapevole che «la cultura non salva niente né nessuno, non giustifica»16, poiché «ci si disfa di una nevrosi, non ci si guarisce da sé»17, Sartre non può però non riconoscere come «consunti, cancellati, umiliati, cacciati in un angolo, passati sotto silenzio, tutti i lineamenti del fanciullo sono rimasti nel cinquantenario»18. Continuano a vivere, nella memoria, i personaggi letterari amati durante l’adolescenza. «Griselda non morta. Pardaillan ancora mi abita. E Strogoff. Non dipendo che da loro i quali dipendono solo da Dio, e io non credo in Dio. Andate a raccapezzarvici. Per parte mia, io non mi ci raccapezzo e mi chiedo a volte se non gioco a vinciperdi e non mi studio di calpestare le mie speranze d’un tempo sol perché tutto mi sia reso centuplicato. In questo caso sarei Filottete: magnifico e puzzolente, quest’infermo ha donato tutto, perfino il suo arco, senza condizioni: ma sotto sotto, si può essere certi che egli aspetta la sua ricompensa»19.


2. Il natale di Gesù come «primo mattino del mondo».

Sartre non è diventato ateo perché, orfano, ha rifiutato la figura del patrigno. Le idiosincrasie anticattoliche di Charles Schweitzer hanno avuto un peso decisamente più grande nel dissolvere la fede giovanile del nipote. A riprova di ciò v’è un’opera, scritta nel 1940, in cui la tesi di Moeller, secondo cui Sartre «ha voluto negare di essere “figlio”», risulta sconfessata. È il testo teatraleBariona, ou le Fils du tonnerre, tradotto ora per la prima volta in italiano dalle Christian Marinotti Edizioni 20, che Sartre compose durante la sua permanenza in un campo di prigionia tedesco. Moeller vi accenna di sfuggita: «In un campo di prigionia ha composto una laude natalizia da recitare in una baracca»21; né poteva essere diversamente poiché la prima pubblicazione dell’opera, in 500 copie fuori commercio, data al 1962. In essa emerge un Sartre inedito, distante dagli esiti nichilistici de La nausea, aperto alla speranza destata dal novum della nascita. Un Sartre che riconosce la positività dell’essere e sa descrivere, con rara delicatezza, l’affezione stupita di Maria, unitamente al pudore protettivo di Giuseppe, per il “Dio bambino”.
Nel giugno 1940 Sartre, a causa della disfatta dell’esercito francese, viene fatto prigioniero dai tedeschi. In agosto viene trasferito in Germania, nel campo di prigionia di Treviri, dove rimarrà fino all’aprile del 1941. Al di là delle privazioni, dei soprusi, non fu per Sartre un periodo negativo. L’esperienza della solidarietà tra prigionieri lo toglierà dalla sua solitudine, dal risentimento di Roquentin, dal disprezzo del mondo. È la premessa di quel passaggio verso il marxismo in cui crederà, in seguito, di trovare la possibilità di un “gruppo in fusione”, di una vita autentica, solidale nella lotta. «Nello Stalag ho trovato una forma di vita collettiva che non avevo più conosciuto dopo l’École Normale, e voglio dire che insomma lì ero felice»22. Lì conosce alcuni sacerdoti, tra cui l’abate Marius Perrin, con cui si lega d’amicizia. «Tutto sommato» scrive Annie Cohen-Solal «con i preti si sente in fraternità. Nonostante interminabii discussioni sulla fede»23. Nel campo, rileva Merleau-Ponty, «questo anticristo aveva intrecciato relazioni cordiali con un gran numero di preti e di gesuiti»24.
È in questo contesto che nasce l’idea di un lavoro teatrale che Sartre scrive in occasione del Natale 1940. Le prove si svolgono nell’hangar che padre Boisselot ha ottenuto dal comandante del campo per dire messa, per concerti e spettacoli teatrali. Nelle sue linee essenziali il lavoro mette in scena la storia di un capovillaggio ebreo, Bariona, che, di fronte all’ordine del procuratore romano concernente un aumento delle imposte, accetta il pagamento chiedendo però agli abitanti del luogo di non fare più figli. Roma potrà esercitare il suo potere solo sul deserto. Nel suo imperativo suicida Bariona non sa ancora che sua moglie Sara è in attesa di un figlio. La scoperta, drammatica, non lo fa desistere dalla scelta, scelta a cui la consorte si oppone. È in questo quadro che Bariona viene informato dai pastori della nascita del Messia in una stalla di Betlemme; una notizia, questa, che ai suoi occhi ha il sapore di una grande illusione, di un inganno. Il capo ebreo medita in cuor suo di uccidere il bambino, di sopprimere questa vuota speranza. Giunto a Betlemme vi trova Sara e, presso la capanna, una folla inginocchiata, commossa e felice. Sorpreso, desiste dal suo proposito e, alla notizia che Erode vuol ammazzare Gesù, raduna i suoi, raccoglie le armi, e, consapevole di andare a morire, va incontro agli sgherri del re. Sartre fu molto contento del suo lavoro. Scrivendo a Simone de Beauvoir dirà: «Ho fatto un mistero di Natale molto commovente, pare, tanto che a uno degli attori recitando veniva da piangere»25. Trent’anni dopo, al contrario, ne darà un’interpretazione negativa sottolineando le finalità politiche della pièce: «Ho fatto Bariona, che era molto brutto ma conteneva un’idea teatrale […]. I tedeschi non avevano capito l’allusione all’impegno, ci vedevano semplicemente uno spettacolo di Natale»26. E ancora: «Se ho preso il soggetto nella mitologia del cristianesimo, non è perché la direzione del mio pensiero fosse cambiata, magari momentaneamente, durante la prigionia. Si trattava di trovare, d’accordo con i preti prigionieri, un soggetto che nella sera di Natale potesse realizzare la più larga unità tra cristiani e non credenti»27. 
Tutto ciò ha una sua verità. Non si spiega altrimenti il finale, chiaramente politico, in senso antitedesco, dell’opera. È tuttavia vero anche, come osserva Cohen-Solal, che si tratta, per Sartre, di un’«esperienza più importante di quanto sembrasse»28. Non è un caso che, nello stesso arco di tempo, si appassioni a Claudel e Bernanos: «Le due grandi scoperte che ho fatto nel campo sono state La scarpetta di raso e il Diario di un curato di campagna. Sono i soli libri che mi abbiano veramente fatto un’impressione profonda»29. Bariona, in realtà, è ben di più di un pamphletpolitico, di lotta, anche se questo aspetto è chiaramente presente. In esso Sartre s’è avvicinato a una percezione del mistero della nascita e della maternità, nonché del mistero cristiano, come mai aveva fatto né farà più nella sua opera. In questo senso esso costituisce davvero, come scrive Antonio Delogu nell’introduzione all’edizione italiana, «una vera e propria eccezione»30 nell’arco del pensiero sartriano. Bariona è, innanzitutto, la fuoriuscita dalla visione del mondo espressa neLa nausea e nei racconti de Il muro, visione che è ancora al centro de L’essere e il nulla. Le parole che Bariona dice a Sara per convincerla a sopprimere il figlio in grembo esprimono il nichilismo esistenzialistico del primo Sartre: «Donna, questo bambino che vuoi far nascere è come una nuova edizione del mondo. Attraverso di lui le nubi e l’acqua e il sole e le case e la pena degli uomini esisteranno una volta di più. Tu ricreerai il mondo, si formerà come una crosta spessa e nera intorno ad una piccola coscienza scandalizzata che rimarrà là prigioniera, in mezzo alla crosta, come una lacrima. Capisci quale enorme incongruenza, quale mostruoso errore di tatto sarebbe il condurre il mondo fallito a nuovi esemplari? Fare un figlio è approvare la creazione del mondo dal fondo del proprio cuore, è dire al Dio che ci tormenta: “Signore, tutto è bene e vi rendo grazie d’aver fatto l’universo”. Vuoi veramente cantare questo inno? […]. L’esistenza è una lebbra orrenda che ci corrode tutti e i nostri genitori sono stati colpevoli»31.
Non generare è espiare la colpa dei genitori, la colpa di Dio. È rifiutare una creazione impura, mal riuscita. Bariona esprime tutto il risentimento della ribellione gnostica, “catara”, di un nichilismo che odia l’essere. La negazione del figlio è la negazione di un nuovo inizio. Ciò che esiste merita di perire: la morte è il giudizio del mondo. Di fronte alla domanda di Sara: «E se nondimeno fosse la volontà di Dio che noi generassimo?»32, Bariona chiede un segno, la manifestazione di Dio. Chiede un segno, ma in realtà non vuole credere: «Non chiederò grazia e non dirò grazie. […] Quand’anche l’Eterno mi avesse mostrato il suo volto tra le nuvole io rifiuterei ugualmente di sentirlo poiché sono libero, e contro un uomo libero, Dio stesso non può nulla. Può ridurmi in polvere o infiammarmi come una torcia […] ma non può nulla contro questo pilastro di bronzo, contro questa colonna inflessibile: la libertà dell’uomo»33. 
Bariona è Sartre, il Sartre prometeico della libertà assoluta, della negazione dell’alterità come suprema forma di autonomia. Il Sartre che si vieta ogni possibile speranza, intesa come fuga, come diserzione dall’inesorabile durezza dell’esistere. Bariona non può sperare, attendere il Messia. «Questo mondo è una caduta interminabile, lo sapete bene. Il Messia sarebbe qualcuno che fermerebbe questo crollo, che rovescerebbe improvvisamente il crollo delle cose […] e noi nasceremmo vecchi per ringiovanire in seguito fino all’infanzia»34. Ciò non è possibile: «La dignità dell’uomo è nella sua disperazione»35. Fin qui nulla di nuovo. È il Sartre più noto, il Sartre “esistenzialista”. Nell’opera compare però la figura del re magio Baldassarre, impersonata sulla scena proprio da Sartre, improvvisatosi attore. Baldassarre rappresenta il momento nuovo che interviene nella visione sartriana, il momento della speranza: «è vero siamo molto vecchi e molto sapienti e conosciamo tutto il male della terra. Pertanto quando abbiamo visto questa stella nel cielo, i nostri cuori hanno gioito come quelli dei bambini e siamo diventati bambini e ci siamo messi in cammino, poiché volevamo compiere il nostro dovere di uomini che sperano. Chi perde la speranza, Bariona, sarà cacciato dal suo villaggio […]. Ma a chi spera, tutto gli sorride e il mondo è dato come un regalo»36.
La speranza di Baldassarre è la speranza di Sara. Anch’ella vuole andare a Betlemme: «Laggiù c’è una donna felice e soddisfatta, una madre che ha partorito per tutte le madri, ed è come un permesso che mi ha donato: il permesso di mettere al mondo il mio bambino. Voglio vederla,vederla, questa madre felice e sacra»37. 
Il proposito della moglie non fa recedere Bariona. Saputo da una specie di veggente il destino di morte del Messia crocifisso, matura in lui il proposito di uccidere il bambino per il bene del suo popolo, per «conservare in essi la fiamma pura della rivolta»38. Giunto a Betlemme, davanti alla stalla, Bariona sorprende Maria di spalle, non vede Gesù in braccio alla madre, vede solo Giuseppe. «Ma vedo l’uomo. È vero: come lo guarda! Con quali occhi! Che cosa può avere dietro quei due occhi chiari, chiari come due limpide profondità in questo viso dolce e segnato? Quale speranza? […] Per trovare il coraggio di spegnere questa giovane vita tra le mie dita, non avrei dovuto scorgerlo dapprima in fondo agli occhi di suo padre. Andiamo, sono vinto»39. Lo sguardo di Giuseppe posato su Gesù ferma la mano omicida di Bariona il quale non può impedirsi di invidiare la felicità stupita della folla accorsa ad adorare il bambino. Una felicità illusoria, dal suo punto di vista, e tuttavia evidente: «Hanno unito le mani e pensano: qualcosa è incominciato. E si sbagliano, s’intende, e sono caduti in una trappola e pagheranno ciò caro più tardi; ma cionondimeno, avranno avuto questo minuto; hanno fortuna di poter credere a un inizio. Che cosa c’è di più commovente per un cuore d’uomo che l’inizio di un mondo e la giovinezza dai tratti ambigui e l’inizio di un amore, quando tutto è ancora possibile, quando il sole è presente nell’aria e sui visi […]. E io sono nella grande notte terrestre, nella notte tropicale dell’odio e della disgrazia. Ma – potenza ingannevole della fede – per i miei uomini, migliaia d’anni dopo la creazione, si alza in questa stanza, al chiarore di una candela, il primo mattino del mondo»40. 
Bariona non partecipa di questa speranza. «Ecco: cantano e io sto solo sulla soglia della loro gioia […]. Mi hanno abbandonato e la mia donna è tra loro e si rallegrano, avendo dimenticato persino la mia esistenza. Sono sulla strada dal lato del mondo che finisce ed essi sono dalla parte del mondo che inizia. Mi sento più solo sul limite della loro gioia e della loro preghiera che nel mio villaggio deserto»41. Solamente ora, incapace di partecipare alla gioia comune, Bariona è veramente solo. Una solitudine solo apparentemente superata nel settimo quadro, l’ultimo dell’opera, in cui Bariona alfine si ricrede e raduna i suoi uomini per salvare Gesù dai mercenari di Erode. È la parte più “politica” e, forse, la meno riuscita che giustifica il giudizio a caldo dato dall’abate Perrin all’indomani della rappresentazione: «In questo Bariona non c’è nulla del mistero del Natale classico: non si vede la Vergine né il Bambino, tranne che in filigrana […]. Gli uomini di Bariona se ne vanno, forse alla morte, ma moriranno perché non venga assassinata la speranza degli uomini liberi»42. 
Il giudizio è pertinente e, tuttavia, non del tutto esauriente. In realtà mai Sartre è stato più vicino nell’intuire il mistero cristiano, quel nuovo inizio che rende possibile la speranza. Inizio legato alla nascita di un bambino. Come afferma Bariona: «Un Dio-Uomo, un Dio fatto della nostra umile carne, un Dio che accetterebbe di conoscere quel gusto di sale che c’è in fondo alle nostre bocche quando il mondo intero ci abbandona, un Dio che accetterebbe in anticipo di soffrire ciò che soffro oggi […]. Andiamo, è una follia»43. Questa follia si tramuta in «stupore ansioso» nello sguardo tenero e trepidante di Maria. «Lo guarda e pensa: “Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatta di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Mi rassomiglia. È Dio e mi assomiglia”. E nessuna donna ha avuto dalla sorte il suo Dio per lei sola. Un Dio piccolo che si può prendere nelle braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che vive»44.
Sartre non scriverà più così, né di Dio né dell’uomo. L’opera del Natale 1940 resterà, da questo punto di vista, un’«eccezione», come se la peculiare atmosfera del campo lo avesse reso più vicino al mistero dell’esistenza. Quanto basta, tuttavia, per consegnarci una delle più belle rappresentazioni del Natale nella letteratura del Novecento. 



Note


1 Ch. Moeller, Littérature du XXe siècle et christianisme, II, La foi en Jésus-Christ, Tournai-Paris 1957, capitolo “Jean-Paul Sartre o il rifiuto del soprannaturale”, tr. it., in Ch. Moeller, Letteratura moderna e cristianesimo, Milano 1995, p. 348.
Op. cit., pp. 348-349.
3 J.-P. Sartre, Les mots, Paris 1964, tr. it., Le parole, Milano 1968, p. 214.
4 C. Moeller, “Jean-Paul Sartre o il rifiuto del soprannaturale”, cit., p. 350.
Op. cit., pp. 350-351.
6Op. cit., p. 351.
Op. cit., p. 406.
Op. cit., p. 401.
Op. cit., p. 351.
10 J.-P. Sartre, Le parolecit., p.95.
11 Op.cit., p. 96.
12 Op.cit., pp. 97-98.
13 Op.cit., pp.169 e 170.
14 Op.cit., pp. 236-237.
15 Op.cit., p. 238.
16 Op.cit., p. 239.
17 Ibidem.
18 Ibidem.
19 Op. cit., p. 240.
20J.-P. Sartre, Bariona, ou le Fils du tonnerre, Paris 1970, tr. it., Bariona o il figlio del tuono.Racconto di Natale per cristiani e non credenti, Milano 2003.
21 Ch. Moeller, “Jean- Paul Sartre o il rifiuto del soprannaturale”, cit., p. 348.
22 J.-P. Sartre,Oeuvres romanesques, Paris 1981, p. LXI.
23 A. Cohen-Solal,Sartre, New York 1985, tr. it., Sartre, Milano 1986, p.188.
24 M. Merleau-Ponty, Sens et non sens, Paris 1948, tr. it., Senso e non senso, Milano 1967, p. 61.
25 J.-P. Sartre, Lettres au Castor et à quelques autres, Paris 1983, tr. it., Lettere al Castoro e ad altre amiche, Milano 1985, p. 657.
26 Cit. in: S. De Beauvoir, La Cérémonie des adieux, Paris 1981, p. 238.
27 M. Contant - M. Rybalka, Les Ecrits de Sartre – Chronologie, Bibliographie commentée, Paris 1970, p. 564.
28 A. Cohen-Solal, Sartrecit., p.191.
29 Intervista di Sartre con Claire Vervin per l’articolo Lectures de prisonniers, in Les lettres françaises, 2 dicembre 1944, p. 3.
30 A. Delogu, “Un mistero di Natale molto commovente”, Introduzione a: J.-P. Sartre, Bariona o il figlio del tuonocit., p.VII.
31 J.-P. Sartre, Bariona o il figlio del tuonocit., p. 36.
32 Op.cit., p. 38.
33 Op.cit., p. 61.
34 Op.cit., p. 64.
35 Op.cit., p. 68.
36 Op.cit., pp. 70-71.
37 Op.cit., p. 72.
38 Op.cit., p. 89.
39 Op.cit., p. 97.
40 Op.cit., p. 101.
41 Op.cit., p. 102.
42 M. Perrin, Avec Sartre au Stalag XII D, Paris 1980, p. 78.
43J.-P. Sartre, Bariona o il figlio del tuonocit., p.78.
44 Op.cit., p. 91.

Read more...

Dall'alienazione all'integrità

>> domenica 21 dicembre 2014


Vi presento oggi la conferenza tenuta da Marco Guzzi all’Università degli Studi di Verona nell’ambito del ciclo tematico di conferenze: Valori e conflitti del vivere civile. Per un orizzonte di speranza. La bella notizia che ci ricavo è che padri e figli possono allearsi, invece di continuare ad ignorarsi, mettendo al centro del loro rapporto la loro reciproca alienazione, una eredità generazionale che li accomuna e di cui dovranno assumersi la responsabilità comune, ma anche il piacere della propria liberazione, piccola rivoluzione personale che prelude alla nascita di una nuova umanità più capace di riconciliazione, di pace, di solidarietà e fraterna gioia.


Read more...

La politica di Aristotele

>> sabato 20 dicembre 2014

Clicca per il documento In PDF
Già dalla battute iniziali delle lezioni dedicate a  politikà che, etimologicamente, sono ‘gli affari che riguardano la città’ (polis), Aristotele ricorda agli ascoltatori che la città è una forma di comunità costituita in vista di un bene; e – aggiunge immediatamente - essa è l’unica che permetta agli uomini di realizzare le proprie potenzialità più tipicamente umane e, pertanto, di essere felici. È per questo che egli può notoriamente affermare che ‘l’uomo è per natura un essere politico’, con la conseguenza che chi non vive nella comunità politica, per natura e non per caso, è evidentemente o inferiore o superiore all’uomo, è un dio o una bestia feroce (Politica I 2, 1253a). La ‘politica’ aristotelica presenta pertanto due vistose differenze con la maniera in cui noi oggi concepiamo questo termine: essa è caratterizzata da un’organizzazione orizzontale del potere dove tutti i cittadini, idealmente, governano e sono governati a turno ed è strettamente connessa con la felicità umana, di cui crea le pre-condizioni materiali; essa rimanda, poi, a una forma assai specifica di comunità – la polis appunto: ad Aristotele non sfugge che esistono anche altre forme di comunità e di associazione umane, come il dispotismo orientale, ma nega che in esse si dia ‘politica’. (Clicca sulla foto per visualizzare il documento in PDF).

Read more...

Carmelo Bene

Clicca sulla foto per il documento in PDF
La sua discussa e controversa figura, spesso oggetto di clamorose polemiche, ha diviso critica e pubblico fin dagli esordi: considerato da alcuni un affabulante ingannatore e un presuntuoso "massacratore" di testi, per altri Bene è stato uno dei più grandi attori del Novecento. Cliccando sulla foto si accede ad un documento in PDF forse tra i più completi esistenti sulla sua figura.

Read more...

Europa e il compito dell'intellettuale

>> giovedì 18 dicembre 2014


Come nell'antica agorà ateniese, tempio del dialogo e della ricerca filosofica, il filosofo tedesco Hans Georg Gadamer e Gerardo Marotta, fondatore dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, si confrontano sul ruolo che può avere l'intellettuale nella crisi etico-politica del nostro tempo. Gadamer e Marotta rintracciano una singolare analogia tra la crisi della pòlis che vive Platone (la cui filosofia risponde a un altissimo impegno politico) e l'odierno smarrimento dell'occidente. Analoga, nelle due situazioni, deve essere la risposta ferma e appassionata della cultura e degli intellettuali. Di fronte alla crisi culturale e civile di un'Europa che stenta a costituirsi come entità politica, Gadamer e Marotta mettono in luce la necessità di un vitale dialogo tra i popoli, che sappia istituire ponti ermeneutici capaci di integrare e assimilare nuove energie in un processo inclusivo, solidale e tollerante. 

Read more...

Il caffè sospeso

Clicca sull'immagine per il documento in PDF
Una lavagnetta vicino al bancone informa che stamattina a Espressobaren sono a disposizione tre “suspended coffee”, caffè sospesi. Un cliente si avvicina alla cassa, chiede il suo conto e alla lista delle consumazioni aggiunge un caffè: “Uppskjuten”, dice in svedese, “Da lasciare in sospeso”. Paga il totale. Channa, 23, ringrazia, si gira verso la lavagna e segna un'altra “X”. I caffè sospesi, ora, sono diventati quattro.
Il caffè sospeso è un'antica tradizione del popolo partenopeo. Dopo anni di assenza la pratica sta tornando di nuovo in auge, forse per colpa della crisi! Ma cos'è il caffè sospeso? Quando un cliente di un bar paga un caffè a una persona che non se lo può permettere: ordina due caffè; uno lo sorseggia subito e l'altro lo lascia, appunto sospeso. Quando un avventore in difficoltà passa al bar e chiede se c'è un caffè sospeso, il barista lo prepara visto che è stato già offerto da un cliente generoso. La storia del caffè sospeso è nata in alcuni bar di Napoli nel secondo dopoguerra. In momenti così difficili, chi aveva di più aiutava chi aveva di meno, anche con un semplice espresso. Era diventata ormai un’usanza, un modo per esprimere la solidarietà tra concittadini. 
Vi propongo la lettura di un bell'intervento di Luciano De Crescenzo sul tema, ricco di aneddoti e considerazioni filosofiche. (Clicca sull'immagine per il documento in PDF)

Read more...

Il lavoro fa male

>> lunedì 15 dicembre 2014

"Innanzitutto il lavoro fa male. Tanto è vero che quando un medico visita un ammalato come prima cosa gli dice “riposo assoluto”; non gli ho mai sentito dire “lavoro assoluto”. E poi il lavoro è un perditempo e il tempo non bisogna perderlo in cose inutili. Bisogna utilizzarlo. C’è gente che perde tutta la giornata a lavorare. Invece guardate me, io non perdo un minuto. Da che m’alzo la mattina  fino a che vado a letto la sera, utilizzo tutto il mio tempo a contemplare, a passeggiare, a pensare, guardo gli alberi, il mare… C’è gente che lavora tutta una vita per riposare a settant’anni, bah… ho un sistema diverso. Io riposo quaranta cinquant’anni, a settant’anni, se sarà il caso, forse allora lavoro. Non è una strada facile, piana. Il mio segreto sapete qual è? L’indifferenza. Solo con questa indifferenza l’uomo si eleva, si eleva… eh, cari ragazzi, poco per volta, imparerete a vivere con saggezza. Mi fanno ridere, mi fanno. Se voi vi affacciate sulla strada, che cosa vedete? Case, case, case… e in ogni casa c’è gente che lavora, in ogni bottega c’è gente che lavora. Il calzolaio fa le scarpe al sarto, il sarto cuce gli abiti al barbiere, il barbiere fa la barba al calzolaio e al sarto; tutti lavorano. Ma pure tutti non aspettano che il momento in cui potranno riposare, quando poi dopo tanti anni di lavoro, finalmente riposano, si sono talmente abituati a lavorare che a stare senza far niente si annoiano. Non bisogna lavorare, non bisogna. Alla domenica, la gente si annoia, e sapete perché? Perché manca del necessario allenamento all’ozio. Perciò che io dico: alleniamoci all’ozio e combatteremo la noia del giorno domenicale. È chiaro?" (Eduardo De Filippo)

Read more...

L'interpretazione heideggeriana di Nietzsche


Per tornare alla più sana e genuina filosofia, oggi vi propongo un bellissimo intervento di Carlo Sini sull'interpretazione di Nietzsche da parte di Heidegger.
Già a partire dall'inizio degli anni Trenta, Nietzsche diventa per Heidegger un inelubibile punto di riferimento, ma, dal '36 al '40, egli tiene lezione quasi esclusivamente su questo filosofo, in un confronto serrato, una sorta di drammatico "corpo a corpo". Ai corsi universitari, Heidegger aggiunge successivamente alcune trattazioni composte fra il '40 e il '46: il risultato è la grande opera pubblicata in due tomi nel 1961 dall'editore Neske di Pfullingen. Negli anni Trenta del Novecento il dibattito su Nietzsche è in pieno sviluppo. Con il libro di A. Bauemler (Nietzsche, der Philosoph und Politiker, 1931), si è aperta una fase nuova nella storia delle interpretazioni del pensiero nietzscheano, di cui si colgono più propriamente i nessi e i collegamenti con la tradizione filosofica. Occorre infatti precisare che nei primi decenni del secolo, l'interesse per l'opera di Nietzsche si era manifestato soprattutto nella letteratura e nell'arte. Come scrive G. Vattimo, con lui l'artista entra nella filosofia; ed è questo modello a stimolare i grandi scrittori del XX secolo, da Kafka a Musil, da Rilke a Thomas Mann, da Strindberg a Gide. Citiamo solo alcune pubblicazioni, fra le più significative: E. Bertram (Nietzsche.Versuch einer Mytologie, 1918), vicino al Circolo di S. George, per il quale il pensiero di Nietzsche doveva diventare "leggenda", ed essere ricostruito mitologicamente; mentre L. Klages (Die psychologischen Errungenschaften F. Nietzsches, 1926) vedeva in Nietzsche soprattutto il fine psicologo e il brillante moralista, che avrebbe dato un impulso decisivo all'indagine sui caratteri dell'uomo, alle "conquiste psicologiche".

Read more...

John Rawls o della filosofia politica nel XX secolo

>> sabato 13 dicembre 2014


Clicca per leggere l'articolo in PDF
Vi propongo la lettura di un'articolo molto interessante di Salvatore Veca (Università degli Studi di Pavia e Politeia) sul lavoro filosofico di John Rawls.
La figura intellettuale di John Rawls ha di fatto dominato negli ultimi trent’anni, a partire dalla pubblicazione del suo capolavoro, A Theory of Justice. Credo che in proposito non ci sia un riconoscimento più nitido e perspicuo di quello espresso da un altro grande filosofo, uno dei suoi critici più acuti e influenti, Robert Nozick: “ora i filosofi politici devono lavorare all’interno della teoria di Rawls o chiarire perché non lo fanno”. Veca aggiunge che la cosa non riguardava solo i filosofi politici: come notava presentando vent’anni fa al lettore l’edizione italiana di Una teoria della giustizia, pubblicata da Feltrinelli a cura di Sebastiano Maffettone, come ogni grande filosofo, Rawls finiva per esercitare con la sua opera un’ampia gamma di effetti anche sul lavoro intellettuale di scienziati sociali che operavano nell’ambito della teoria giuridica, economica, politologica o sociologica. (Clicca sull'immagine per leggere il documento in formato PDF).

Read more...
Share

  © Blogger templates Shiny by Ourblogtemplates.com 2008

Back to TOP