Il mare non bagna Napoli...
>> martedì 15 maggio 2012
Anna Maria Ortese (Roma 1914 - Rapallo 1998) ha delineato, in solitudine e a dispetto della disattenzione dei contemporanei, la sua straordinaria personalità di scrittrice, dei cui romanzi solo adesso forse siamo in grado di comprendere l'assoluta compatibilità con le coeve vicissitudini di quel genere narrativo. Al suo primo apparire, nel 1953, "II mare non bagna Napoli" sembrò a molti inserirsi in quel filone che allora e dopo venne chiamato "neorealismo"... Era tutt'altra cosa. Nato dall'incontro della scrittrice con la città uscita in pezzi dalla guerra, il libro è la cronaca di uno spaesamento.
Pubblicato nel 1953 da Einaudi, premio Viareggio dell’anno successivo, “Il mare non bagna Napoli” è una delle opere più note di Anna Maria Ortese. La raccolta di novelle fece conoscere la scrittrice, ma le valse anche l’ingiusta accusa di antinapoletanità. La città che emerge dai racconti, infatti, ha qualcosa d’infernale ed è presentata senza retorica, con sguardo critico e lucido. La scrittura si fa guida attraverso i vicoli, tra le tragedie familiari della plebe, le condizioni disumane di vita, senza quella “complicità” che aveva caratterizzato gli scrittori della napoletanità come Eduardo De Filippo. L’intento della Ortese non è denigratorio, come testimonia la Guida alla lettura pubblicata nell’ultima edizione Adelphi del testo del 1994; è, invece, quello di creare uno schermo su cui proiettare il proprio “doloroso spaesamento, il male oscuro di vivere”. Così la sofferenza e l’indignazione della scrittrice prendono corpo nei racconti quali “La città involontaria”, omaggio a Dante che mette a nudo la miseria umana, o “Il silenzio della ragione”, che chiama in causa gli intellettuali e la loro indifferenza. Emblematica è la storia di Eugenia, “Un paio di occhiali”, che apre il libro con il dolore della scoperta del mondo da parte di una bambina mezza cieca che finalmente può indossare gli occhiali per vedere “il mondo fatto da Dio” con il vento, il sole, il mare che aveva sempre immaginato e che invece è colta da una vertigine: “ le gambe le tremavano, le girava la testa, e non provava più nessuna gioia (…) Eugenia si era piegata in due e, lamentandosi, vomitava”. La realtà è intollerabile “alla vista” per la scrittrice; tolto il velo onirico, resta il male contro il quale si scaglia la sua polemica morale. La risposta ad un mondo senza speranza non è, tuttavia, la fuga, perché anche quella lascia un gusto amaro quando inevitabilmente bisogna fare i conti con la realtà, con quegli occhiali che svelano il dolore. E’ il caso di Anastasia Finzio, una donna rassegnata alla solitudine e alla povertà che sogna un’altra vita quando scopre che è tornato a Napoli il suo spasimante di gioventù, Antonio Laurano, e pensa di poter cambiare “come un viottolo che sembra morire in un campo sterrato, e invece, a un tratto, si apre in una piazza piena di gente, con la musica che suona”. Ma Antonio è fidanzato con un’altra, non resta che l’amarezza del reale: “Un sogno era stato, non c’era più nulla. Non per questo la vita poteva dirsi peggiore. La vita…era una cosa strana, la vita. Ogni tanto sembrava di capire che fosse e poi, tac, si dimenticava, tornava il sonno”...
Non ho dubbi... è un libro da leggere!
Gennaro Cangiano
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